"Mia madre, l'Alda furiosa Così fragile, così forte"

Emanuela, figlia maggiore della Merini: «Quanto fu duro e meraviglioso vivere accanto alla poetessa»

"Mia madre, l'Alda furiosa Così fragile, così forte"

Dal nostro inviato a Omegna

«Lo so, me lo fanno notare tutti. Sei uguale a tua madre, Oddio, ti ho intravista dietro i vetri e mi è sembrato di vedere l'Alda.... Ogni volta che sento assomigli a tua madre mi cadono le braccia. Tutti sappiamo di assomigliare ai nostri genitori, ma sentirselo dire di continuo è asfissiante. La gente alla fine non ti vede come sei tu, ma come figlio di.... È difficile. Le donne, poi... Sono sempre mogli di, madri di, figlie di...».

Moglie di un ragazzo che la portò via di casa giovanissima, madre di due figli ormai grandi, figlia maggiore di Alda Merini, Emanuela Carniti ha gli stessi occhi, lo stesso anello, la stessa eleganza nel fumare, la stessa voce prima bassa e poi squillante della mamma. Ci sono tante cose uguali tra loro. Ma la cucina della sua casa, nel centro storico di Omegna, sul lago d'Orta, è molto più grande e luminosa del piccolo appartamento di ringhiera di Alda Merini, sui Navigli. «A Omegna arrivai quando me ne andai di casa, ero una ragazzina. Quindes ann. Se ci penso... Io vivevo coi miei, proprio nella casa sui Navigli. Una sera il mio ragazzo, che sarebbe diventato il mio primo marito - ride, citando Donna Flor... - litigò con papà, per una sciocchezza. E mio padre gli urlò di andarsene via. E tu vai con lui, mi disse. Ci pensai un po'. Non volevo sposarmi, ma volevo andarmene. La seconda cosa la feci subito, la prima poco dopo: nel '71, a 15 anni e mezzo. Lui era di Omegna. Ed eccomi qui. Ormai non potrei più vivere a Milano, preferisco una vita più a misura umana, non so se mi capisci... Insomma, sto bene qui».

«Qui» è una cittadina di quindicimila abitanti, incastrata nel ramo più settentrionale del lago d'Orta, in un Piemonte che sembra ancora Lombardia, a nord del profondo Nord. «È stata dura all'inizio, non c'era niente, solo uno stradone, nient'altro, mi sentivo male. Poi ho cominciato a lavoricchiare, dopo ho fatto la scuola per infermieri, che è stata la mia salvezza. E quando nel '78 è arrivata la legge Basaglia, la 180 che chiudeva i manicomi, ho iniziato il tirocinio in psichiatria, all'ospedale di Verbania. Arrivavano pazienti devastati dai farmaci, violentati nel fisico e nella testa, e con loro arrivavano anche gli infermieri dei manicomi, che erano poco meno che guardie carcerarie. Mi dicevano di stare attenta, di non dare mai le spalle ai malati, che era pericoloso... Non potevo lavorare così, e allora ho scelto di andare nelle strutture sul territorio: visite a domicilio, negli ambulatori, attività di gruppo, assistenza in casa... L'ho fatto per 32 anni. Intanto ho avuto due figli. Il maschio fa il programmatore informatico. La femmina la psicologa...». «...?!». «Non dirmelo, lo so, avere a che fare coi disturbi mentali è una cosa di famiglia... È un destino».

Quella di venire a vivere a Omegna è stata una scelta. La cucina di Emanuela Carniti è linda, accogliente, alla parete una riproduzione d'artista della Darsena e del Naviglio Grande («oggi è tutto così diverso da allora...»), un ritratto a matita colorata di Alda («ne ho tanti di là, nel sancta sanctorum dedicato alla mamma, ma questo è quello che mi piace di più, guarda com'è bella!») e un tavolo apparecchiato. Pranziamo con pollo alla birra, insalata, un dolce al cioccolato, vino rosè e diverse Yesmoke. «Per un po' ho fumato l'elettronica, ma sono una tabagista. Sono cresciuta con papà e l'Alda... La casa era una camera a gas. Io ho iniziato a 25 anni. Mamma s'arrabbiava, mi diceva di non fumare, come dicono tutte le mamme, ma lei non ha mai smesso. Ha fumato fino a quando è entrata in coma, fumava durante i ricoveri, persino in terapia intensiva. Anche negli studi televisivi. Contro ogni regolamento sanitario, al di fuori da ogni limite di legge».

Contro ogni regola, al di fuori di ogni limite, Alda Merini - «un carattere molto molto fragile e molto molto forte» - ha fatto tutto quello che voleva nella vita, quando voleva. «Non l'ho mai vista come una donna legata da obblighi e imposizioni, lei così anarchica. All'inizio, quando io ero piccola e lei stava ancora bene, ha provato a interpretare la perfetta donna di casa, fare la spesa, tenere i conti, era anche attenta a me, perfino troppo, era molto severa, non potevo fare niente... Poi quando è nata mia sorella, la seconda figlia, c'è stata la svolta. La mamma ha avuto una depressione post partum e da lì le cose sono sempre peggiorate. Fu come voltare pagina. L'Alda non era fatta per occuparsi della casa e della famiglia. Non era in grado. Forse non era neanche tagliata». Emanuela è stata l'unica a rimanere in famiglia. Le altre tre sorelle, Barbara, Simona e Flavia, furono date in affido. «Io ho molti ricordi della mamma. Il più bello? Quando ridevamo per niente come pazze, senza smettere, solo per una sciocchezza. Il più brutto? Il suo primo ricovero: ero piccola, ma non così tanto da non capire. La sentivo urlare quando l'hanno portata via».

Più bella della poesia è stata la mia vita. Ma è davvero stato così? «Mah... La mamma faceva dentro e fuori gli ospedali. E finito un ricovero poteva capitare che dopo poco tempo chiedesse di nuovo di rientrare in ospedale perché si sentiva depressa. Per il resto, le immagini più lontane che ho sono quelle di lei che scriveva, a mano o a macchina. Ha sempre scritto. Sì, poi dava qualche lezione di pianoforte, ai bambini, o faceva ripetizioni... Mi ricordo a 11 anni, che facevo avanti e indietro dal Paolo Pini a trovarla... E anche quando sono andato via di casa continuavamo a vederci, certo. Io venivo spesso a Milano, e lei e papà, in macchina, venivano qui a trovarmi... Che rapporto avevamo? Conflittuale, come tra qualsiasi figlia e madre normali. Con in più il fatto che lei non era una madre normale. Era una figura così... imponente. Ero piccola ma me lo ricordo: da casa nostra passavano Quasimodo e sua moglie, la ballerina Maria Cumani. Lo psicanalista Franco Fornari era uno dei suoi grandi amici. Poi noi andavamo da Giovanni Scheiwiller - aveva un cane super isterico, peloso, magrissimo, g'aveva tacà nient... - mentre Vanni fu padrino al battesimo di una delle mie sorelle. Il mondo che ci girava attorno era quello».

L'élite di Milano. Poi arrivò la popolarità nazional-popolare. «L'escalation cominciò col Maurizio Costanzo Show, negli anni Novanta. È la tv che ti dà la fama. La sua popolarità continuò a crescere e crescere, sempre di più, tanto che è più popolare adesso che è morta di quando era in vita». Il mercato e i media l'hanno anche sfruttata, spolpata, banalizzata. «Fa parte del gioco. Se diventi cibo per tutti, ti cannibalizzano. Lei si arrabbiava, ma era anche contenta. Aveva dei veri fan. Che spesso trattava anche male. Venivano su dalla Sicilia per vederla e lei magari non gli apriva la porta, perché quel pomeriggio c'ero lì io che ero andata trovarla. Mi diceva: Mi vogliono toccare come fossi una santa!. Era una primadonna, avrebbe potuto fare l'attrice. Tutti ci teniamo a essere notati, ma lei più di tutti. Ti ricordi quei versi? Spazio spazio, io voglio, tanto spazio...».

Lo spazio che Emanuela ha dato al ricordo della madre - «furiosa e bellissima» - è una grande stanza, il sancta santorum. Dentro ci sono i suoi quadri con l'Alzaia e il tram 19, «che passava davanti a casa nostra», i fumetti che gli dedicava Arnoldo Mosca Mondadori - «Guarda che belli: L'Alda che suona il piano per il cardinale Ravasi. L'Alda in barca a Lampedusa. L'Aldina dalle uova d'oro...» - e poi i disegni di Luzzati, ritratti, le foto di Giuliano Grittini, e una massiccia libreria: dentro una copia di tutti i libri, le plaquette, le raccolte, i libri d'artista, gli economici, le copie uniche dell'immensa produzione di Alda Merini, morta otto anni fa, fra tre giorni, il 1º novembre. «Anche io da piccola scrivevo poesie. Ma poi... Immagini cosa significa pensare di pubblicare qualcosa con una mamma così? L'ho fatto soltanto tre anni fa, una raccolta di versi. S'intitola Chirurgia d'affetto».

Affetti. Alda Merini - poetessa non a caso molto amata da chi solitamente non ama la poesia - dava e riceveva moltissimo. Generosa («regalava tutto a tutti, soprattutto poesie»), spigolosa («le persone più vere sono sempre le più difficili»), autentica («non indossava mai maschere, ecco perché piaceva così tanto»), viveva di affetti e passioni. Che declinava a suo modo.

«Lei diceva sempre che le sue poesie più belle sono state le sue figlie. Balle. Le sue poesie più belle sono state le sue poesie. Punto. Quella era la sua strada, il suo dáimon. Poteva e doveva fare soltanto la poetessa.

Questo non significa che non ci volesse un bene immenso o che noi non ne volessimo a lei. Anzi. Ma non era facile. Ancora quando ero grande e discutevamo, alzava il dito e la voce: Non si risponde così a una Poetessa!. Non a una mamma, a una poetessa. Hai capito?».

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