«Crescono infatti ciliegie aspre e ciliegie dolci di ogni tipo, tanto domestiche quanto selvatiche, in tale abbondanza che talvolta capita ne vengano portate in città in un sol giorno più di sessanta carri; in ogni momento da metà maggio fin quasi a metà luglio se ne trovano in vendita in città».
L’immagine dei sessanta carri carichi di ciliegie che varcano le porte di Milano non è che una delle tante che popolano uno dei libri più belli mai scritti su una città, il De magnalibus Mediolani di Bonvesin da la Riva, edito ora nella prestigiosa collana della Fondazione Lorenzo Valla, per i tipi di Mondadori (Le meraviglie di Milano, a cura di Paolo Chiesa, pagg. LXXXIV-280, euro 30).
Ma la minuziosità con la quale il geniale e bizzarro poeta milanese - vissuto tra la metà del Duecento e la seconda decade del Trecento - ci presenta le meraviglie della città contiene, nel suo stile sorprendente, notizie destinate a varcare i secoli per giungere fino a noi milanesi di oggi, che quotidianamente organizziamo e partecipiamo a convegni, conferenze, tavoli di lavoro, redazioni congiunte e via di seguito per saggiare lo stato di una città sulla quale, fino all’inizio di questo secolo, si era steso un silenzio lungo una quarantina d’anni.
La Milano che guarda all’Expo e soprattutto al dopo-Expo cos’ha da imparare dalle Meraviglie di Milano? Ha ancora senso specchiarsi in un libro scritto nel 1288, quando l’aspetto della città era completamente diverso e molti dei suoi padri fondatori e ri-fondatori (nessuna città ha fondamenta altrettanto stratificate, nessuna città è nata così tante volte) non erano ancora apparsi? Val la pena confrontarsi con una città che non aveva ancora conosciuto i Visconti e gli Sforza, Leonardo da Vinci, san Carlo Borromeo, il Duomo e l’Illuminismo?
La risposta sta tutta in questo insuperabile capolavoro. Fin dalla prima pagina ci rendiamo conto infatti che non è di un’altra Milano che Bonvesin ci sta parlando, ma proprio di questa, della nostra. «Mi sono accorto - dice - che non soltanto gli stranieri ma anche i miei stessi concittadini dormono, per dir così, nel deserto dell’ignoranza, e non conoscono le meraviglie di Milano».
Dunque, già nel 1288 Milano è tenuta per brutta, o comunque non rimarchevole per bellezza. Già nel 1288 la sua bellezza è sconosciuta ai suoi stessi abitanti. Già nel 1288 Milano si presenta come una città segreta, che si nasconde al mondo, una città dove il privato sopravanza il pubblico, popolata da uomini e donne dediti principalmente al lavoro e ai commerci, più sensibile al benessere che alla politica, ricca e orgogliosa, ma al tempo stesso fragile e soggetta a conquiste straniere. Tale era Milano, e tale resta. La bellezza visibile di una città dipende, perlomeno nella storia occidentale, dalla quantità di potere che essa gestisce. Roma, Firenze, Venezia, Napoli, Palermo, Parigi, Londra sono tutte capitali, centri di potere laico e religioso. Per queste città era fondamentale che la potenza avesse un correlativo nel decoro cittadino. Milano ha un’altra storia, e non ha mai avuto la necessità di rendere visibile la sua bellezza: per questo anche i suoi cittadini, oggi come ieri, la ignorano.
Per leggere la bellezza di Milano non bastano gli architetti e gli urbanisti, o gli storici dell’arte. Occorrono prima di tutto i contabili, o i maestri di scuola, come Bonvesin, abili a far di conto. Allora come oggi, Milano è bella a cominciare dai suoi numeri. E Bonvesin enumera: fiumi, fossati, canali, case, chiese, palazzi, cappelle, portoni, porte, medici, chirurghi, maniscalchi, fabbri (Milano patria del design industriale), panettieri, mercanti. Ci parla di quello che i milanesi mangiano (titolo dell’Expo: «Nutrire il pianeta, energia per la vita»), di come vestono (Milano capitale della moda), ci parla dei suoi ordini religiosi, dei suoi ospedali e delle sue case di carità (Milano patria del cattolicesimo sociale).
La bellezza di Milano non sta nei suoi monumenti, ma nella sua mirabile organizzazione, nella qualità della vita. Una città è bella perché ci si vive bene: questa è la vera unità di misura. A Milano tutti vivono bene, i ricchi come i poveri, i sani come i malati, perché la sua aria è buona, buono il suo clima, ottime le sue acque, fervida la carità dei cittadini grazie ai molti santi che l’hanno abitata.
Un altro tema che non può non interessare il milanese di oggi impegnato a rendere migliore la città è quello del rapporto città-regione. Bonvesin ci ricorda che i sobborghi «sono sempre compresi quando si parla di città», tratteggiando il profilo di una città dai confini labili, legata al suo territorio. Non esiste altra città italiana così in simbiosi con la propria regione. Anche questo è un carattere che Milano riscopre proprio in questo periodo in cui la valorizzazione delle sue risorse agricole - Parco Sud, agricoltura «chilometro zero», orti cittadini ecc. - sta diventando un argomento decisivo per il futuro.
Per concludere, va rimarcato un vizio della città, che Bonvesin tradisce col proprio stesso entusiasmo. E che rimane un vizio anche nei secoli successivi, fino a noi. È il vizio di passare dalla disistima di sé a un’eccessiva autostima. Non fosse che per la scarsità di mandorle, potremmo dire che la Milano di Bonvesin è la città perfetta, la perfetta immagine, o quasi, della città celeste. È un modello di origine gnostica, presente in tutto il Medioevo italiano, fondato sull’illusione che la buona organizzazione sociale e politica possa costituire un elemento di salvezza per l’uomo.
Questa attitudine trionfalista è un vizio che Milano conosce ben prima del calvinismo. Ed è significativo che proprio a Milano si sia scritta una pagina fondamentale della biografia di sant’Agostino, che più di chiunque altro ha combattuto questo genere di illusioni.
Ma per l’autostima vale ciò che diceva Manzoni a proposito dell’umiltà: facile mettersi al disotto, facile mettersi al disopra della realtà. Difficile è stare «in pari», al giusto livello. Su questo punto, il sismografo di Milano si è sempre dimostrato molto irrequieto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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