Francesca Amè
La storia che segue è dedicata a chi pensa che i musei siano posti noiosi. Siamo a Brera: l'occasione è il riallestimento dell'ala meridionale della Pinacoteca, quelle con i dipinti del Cinque e del Seicento, in tutto sette sale. Ora ci sono pareti color borgogna intenso, didascalie chiare (alcune d'autore, con commenti di scrittori come Tiziano Scarpa e Tim Parks) e un respiro che prima si faceva fatica a cogliere: si comincia con i dipinti dei Carracci e Reni e poi si entra nel salone dove, finalmente in posizione di rilievo, appare la «Cena in Emmaus», capolavoro di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio. È subito emozione: pare di vederla la prima volta. Si procede con i pittori romani e napoletani: anche in questo caso si riporta alla luce, ovvero alla fruizione del visitatore, un grande sottovalutato, Orazio Gentileschi. Il riallestimento continua con i maestri lombardi e con la sala intitolata a Rubens (la XXXI: il suo «Cenacolo» pare un contrappunto alla cena essenziale del Caravaggio). «In dieci mesi abbiamo riallestito quasi metà del museo», dice il direttore James Bradburne e per riallestimento si capisce che intende una piccola rivoluzione. Brera festeggia ufficialmente giovedì: museo gratuito, dalle 8.30 alle 22.15. Tutti contenti? Troppo facile. Per l'occasione la Pinacoteca ospita un dialogo (il terzo dopo quello tra Raffaello e Perugino e poi Mantegna e Carracci) tra la «Cena in Emmaus» e altre tele ospiti, ed è qui che le cose si complicano. «Attorno a Caravaggio» è una mostra temporanea, a cura di Nicola Spinosa, a lungo soprintendente del polo museale della città partenopea, che confronta la tela di Brera con cinque opere a diverso titolo contestate o attribuite a Caravaggio o a pittori suoi contemporanei. Esposte, al lato sinistro della Cena ci sono due Maddalene, una del fiammingo Louis Finson e una copia da Caravaggio, dal cui confronto qualsiasi persona a digiuno di storia dell'arte può capire la differenza tra pittori scolastici e un genio. Sulla destra, il dialogo a distanza ravvicinata tra la «Giuditta che decapita Oloferne» di Finson proveniente da Palazzo Zevallos di Napoli e, per la prima volta esposto in un museo, il «dipinto della discordia», quella Giuditta che decapita Oloferne proveniente da una collezione privata di Tolosa, scoperta solo nel 2014 nella soffitta di una ricca casa ormai in rovina e posta sotto tutela dallo stato francese. Un asterisco in didascalia indica che l'attribuzione a Caravaggio è «condizione del prestito e non riflette necessariamente la posizione ufficiale» di Brera ma questo non è bastato ad alcuni (Giovanni Agosti si è dimesso dal comitato scientifico). «Mi muovo sui carboni ardenti», dice il professor Spinosa che ha ricostruito con rigore la storia documentale del dipinto francese. Basta però vederlo lì, accanto alla «Cena», per capire che, se pur non fosse un Caravaggio, di certo è opera di fattura altissima. Una giornata di studi a porte chiuse, già fissata per fine gennaio a Brera, metterà a confronto esperti da tutto il mondo e stabilirà l'eventuale attribuzione. Il tempo, intanto, stringe, come ci spiega il francese Eric Turquin. È lui l'esperto che, per conto di un notaio, ha attribuito il dipinto al Caravaggio facendo drizzare l'attenzione dello stato francese che ha trenta mesi di tempo per decidere se acquistare l'opera. «Il valore? Non parlo di soldi. Il quadro non è sul mercato», dice.
Vero, in parte: non lo è ancora per un due anni e mezzo dopo di che lo stato francese (il Louvre scalpita ma, si vocifera, anche qualche grande collezionista come Pinault) potrebbe acquisirlo. Un numero però lo diamo noi: per il suo arrivo in Italia il dipinto è stato assicurato per 120 milioni.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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