Cultura per integrare. La ricetta è molto gettonata soprattutto a sinistra, ma i fatti seguono davvero alle parole? Non sempre. E Milano, presentata come un «modello», sconta ancora incertezze e singolarità, fra queste una «polarizzazione» delle iniziative nelle zone centrali, o in alcune periferie, a dispetto di un semicentro che resta zona grigia, si direbbe dimenticata.
Del tema migranti si parlerà oggi all'Università Cattolica nel corso della seconda giornata di «Migrations Mediations». Nell'incontro «La città multietnica: il caso Milano» sarà presentato un database di tutte le realtà che si sono impegnate negli ultimi tre anni in progetti di «inclusione» mediante strumenti artistici o culturali. Dall'analisi di un campione di 138 realtà risulta che i soggetti più attivi siano associazioni culturali (61%), fondazioni (11%), enti pubblici o privati (10%) e cooperative sociali (7%). Quanto alla distribuzione delle iniziative sul territorio «mostra - si legge - un'interessante concentrazione nel centro storico, affiancata però da una intensa presenza di esperienze innovative nelle zone a più alta densità di comunità straniere (San Siro, Loreto-Via Padova, Calvairate, Dergano)». Di «una strana polarizzazione di attività, o al centro o nelle periferie» parla Ruggero Eugeni, professore ordinario di semiotica dei media alla Cattolica e direttore del progetto Migrations Mediations. Strana polarizzazione perché «sono allocate al centro di Milano, nelle zone in cui si trovano le percentuali più alte di stranieri, poi c'è una fascia grigia, e poi la periferia, per esempio Cascina Casottello, in cui ci sono tutta una serie di realtà molto a contatto col territorio, tutta una serie di agenzie, spesso fondate da straniero o ex stranieri».
Milano sembra a un atomo, spiega il professore: «Un nucleo e una serie di realtà che gli ruotano attorno». «Bisogna capire se è un modello o no». Sicuramente, per i ricercatori, è un caso «esemplare». «C'è un fiorire di attività - spiega Eugeni - in parte programmate, in parte spontanee. Con una maturazione professionale da un lato, ma scarsa capacità di riconoscersi dall'altro, molte iniziative dal basso e realtà che si parlano poco». «Stiamo uscendo dal volontariato o dalle iniziative dei consigli di quartiere - prosegue il curatore della ricerca - per arrivare a una dimensione più professionale. E le realtà sopravvissute sono quelle più strutturare, in grado di fare business plan, o fund raising con le fondazioni, ma anche di comunicare bene o di agganciare i politici».
«La cultura - spiega Eugeni - viene considerata un di più, qualcosa per fare bella figura, oppure preda di fricchettoni o di un volontariato un po' velleitario e pasticcione, e in parte è vero, soprattutto lo era fino a qualche anno fa. Adesso ci sono ancora i cascami di una certa improvvisazione, ma ci interessa andare a vedere come si stanno strutturando le professionalità in questo settore, per dargli la stessa dignità degli altri».
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