È il tempio degli scampati alla Shoah e custodisce pezzi di una storia fatta di mille storie. Le foto con i volti sorridenti di giovani donne, le sedie della vecchia sezione milanese del Partito nazionale fascista, l'armadio sacro che arriva dal campo di Ferramonti, i documenti di viaggio appartenenti ai soldati della Brigata ebraica (giovani ebrei definiti dalle autorità inglesi «soldati palestinesi»). La sinagoga Beth Shlomo, oggi in corso Lodi, fino al 2011 era all'Ottagono in Galleria, ed è tornata quindi in zona Porta Romana, dove a lungo era già stata, cuore della comunità ashkenazita di Milano ed erede a sua volta del tempio aperto nel dopoguerra in via Unione da profughi diretti in gran parte in Israele, dove si andava consolidando l'embrione di uno Stato moderno e presto indipendente. «I soldati ebrei erano inquadrati nell'esercito inglese, in campagnie, con compiti per lo più logistici - ricorda Eugenio Schek, figlio di uno di quei soldati e oggi responsabile del tempio - gli inglesi forse pensavano così di non farli diventare troppo bravi. In realtà la logistica e le infrastrutture divennero presto il centro degli eserciti moderni, e fra quei militari c'era gente come Moshe Dayan, uomini che poi andarono a formare il nucleo di Tzahal, l'esercito israeliano, o anche del Mossad». Quei soldati furono le prime divise alleate entrate a Milano, pochi giorni dopo la Liberazione partigiana del 25 aprile. «Il tempio maggiore era stato bombardato - ricorda Eugenio - e i soldati ebrei stabilirono il loro circolo, una sorta di dopolavoro, in via Cantù». Non lontano, in via Unione 5, la vecchia sede fascista di palazzo Odescalchi era rimasta vuota e gli ebrei cominciarono a organizzare in quella palazzina l'arrivo degli scampati ai campi di concentramento, desiderosi di imbarcarsi per la «terra promessa» con viaggi ancora clandestini, dato che le frontiere erano ancora chiuse. «In via Unione il rabbino organizzò un oratorio, con le cose che c'erano, e non ce n'erano molte. Le sedie erano sempre quelle della vecchia sede del Pnf». L'armadio sacro arrivava dal campo di internamento di Ferramonti: «Gli ebrei non italiani arrivati da mezza Europa - ricorda Schek - erano stati dichiarati nemici dello stato e spesso portati in questi campi di internamento, come Ferramonti in Calabria, molto diversi dai campi di concentramento e d'altra parte in Italia non c'era una reale convinzione di perseguitare o sterminare gli ebrei». «Questi campi erano più simili ai campi destinati ai prigionieri di guerra» suggerisce il portavoce di Beth Shlomo, Davide Romano: «C'era una diaria, il comandante portava i bambini in paese a prendere il gelato. C'era anche un tempio e il legno dell'Aron di Ferramonti divenne così l'armadio di via Unione, e poi di corso di Porta Romana». In via Unione, nei locali tornati alla questura, una targa ricorda questa storia. Una storia molto milanese e molto italiana: «Il Beth Shlomo e la Brigata Ebraica rappresentano un pezzo della storia del nostro Paese e della nostra città - dice infatti Romano - Una storia di guerra e distruzione, ma anche di ricostruzione e di vita. Una storia il cui valore è ancora molto attuale».
Testimoni sono i figli e i nipoti di quegli ebrei che persero tutto (pochi fortunati persero tutto tranne la vita). Oggi sorridono guardando quei volti e raccontando quelle storie. Sorridono non all'orrore della Shoah, che resta indicibile, ma al ricordo di uomini e donne che, pur avendolo vissuto, tornarono, spesso faticosamente, alla vita, ricostruirono case, famiglie e a volte fortune. «Oggi - conclude Romano - i terroristi usano le Crociate o lo scontro tra Israele e palestinesi per giustificare i kamikaze in Europa.
Mentre dopo la Shoah gli ebrei sopravvissuti ripresero a vivere, lasciandosi alle spalle gli orrori vissuti. Questo diverso comportamento è dovuto a un elemento chiaro e lampante: il fanatismo. Se non cancelleremo il fanatismo, questi jihadisti troveranno sempre un alibi per ucciderci».
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