La mala milanese ha avuto la sua età dell'«innocenza». Un'epoca in cui i banditi andavano in bici e usavano il coltello, rubavano e picchiavano, ma non sparavano senza motivo. Non perché fossero Robin Hood meneghini: semplicemente condividevano la piazza e l'osteria con gli abitanti del quartiere ed erano nati nelle stesse famiglie operaie. Così è stato dall'inizio del Novecento fino ai Cinquanta inoltrati. Quando sulle sponde del Naviglio è sbarcata la criminalità organizzata. «Importata» dal Sud. Il mondo e le imprese della ligéra, la malavita «leggera» e di prossimità, li racconta lo storico dell'Università statale Luigi Vergallo nel libro Muffa della città. Criminalità e polizia a Marsiglia e Milano (1900-1967), edizioni Milieu. Dove la «muffa» (da un'espressione del Corriere d'informazione) è appunto il sottobosco che nutriva insieme onesti lavoratori, «teppa» e sbirri.
IL «MOLLA! MOLLA!»
All'inizio del XX secolo Milano ha mezzo milione di abitanti. La malavita è artigianale e primitiva. «Il revolver è ancora sconosciuto al nostro teppista, che preferisce ricorrere al coltello, più silenzioso ed insidioso». Non solo. «I reati generalmente commessi, e che preoccupavano la polizia, erano principalmente i borseggi, il furto e la ricettazione, le truffe, oltre, al limite, a qualche aggressione e a molte risse. Tuttavia, non era raro che, quando scoperti, i piccoli ladruncoli provassero a sottrarsi all'arresto in modo violento». Da parte della popolazione c'era richiesta di ordine, però anche solidarietà verso il poco di buono eppure dirimpettaio. In città era ormai tradizione «il fenomeno del molla, molla!». Eccolo: «Mentre lo traducevano (l'arrestato, ndr) alla sezione di questura in via Gian Giacomo Mora, alcuni giovanotti in Piazza Vetra, dinanzi ad un'osteria, cominciarono a gridare molla! molla! e gettarsi addosso alle guardie».
FALSARI E BICI RUBATE
Le emergenze erano «i ferimenti con armi da taglio, motivo per cui nel maggio del 1908 fu finalmente approvata alla Camera la cosiddetta legge contro il coltello». I falsari: c'era una banda in via Pilo «dove, in un appartamento, aveva sede la stamperia dei biglietti e in particolare dei cosiddetti scudi, le monete da cinque lire che, a parere della questura, aveva negli ultimi tempi inondato la città di denaro contraffatto». I furti di biciclette: fece notizia l'arresto del «Macellarin, noto pregiudicato milanese che in periodo di guerra si stava dedicando appunto a numerosissimi furti di velocipedi nella zona di Greco e di Turro, oltre che attorno a viale Monza». Ancora: «Fu scoperto un colossale emporio di oggetti rubati in via Tortona, che doveva probabilmente rappresentare uno dei molti locali di quel tipo nel quartiere Ticinese. Gli agenti, oltre trenta uomini guidati dal delegato Pistone e dal brigadiere Nava, vi trovarono una grossa quantità di merci di tipo diversissimo fra loro: enormi oggetti di ottone, verghe d'acciaio, accessori di seta, scarpe nuove, tela greggia, cotone, oltre cento biciclette, un'automobile, due motociclette, un furgoncino». Nel novembre del 1922 «alcuni ladri entrarono, mostrando straordinaria destrezza, nei locali della pretura siti in via S. Antonio al 5, portando via la totalità dei corpi di reato: oggetti vari, oro, gioielli, stoffe, liquori, fucili e rivoltelle, senza che nessuno si accorgesse di nulla».
LA TRATTA DELLE BIANCHE
Poi c'era quella che si chiamava «tratta delle bianche». In città nel 1927 «le case di tolleranza legali erano contate nel numero di 25. Il problema vero era però rappresentato, anche nella città lombarda, dai traffici illegali e dalla tratta». Le ragazze venivano adescate attraverso «le agenzie di collocamento per le donne disoccupate o anche gli annunci matrimoniali sui giornali». I «ras del vizio» si affrontavano in scontri sanguinosi, come quello tra «Rudy il guappo» e «Mimmo il tarantino». Alcune associazioni provavano a educare le giovani alla sicurezza. Tra queste, la Lega dei padri di famiglia per la difesa della moralità di Milano.
Certo, a fine anni Venti «iniziavano ad apparire bande che compivano vere e proprie rapine e, fattore non trascurabile perché sembrava tradire una certa professionalizzazione e sicuramente l'intenzione di colpire ripetutamente, questi criminali usavano mascherarsi». Tutto sommato però la criminalità milanese si dedicava ancora per lo più ai furti con destrezza e con scasso ed erano considerati «pericolosi criminali» personaggi senza pistola, non organizzati e con soprannomi bizzarri. Niente a che vedere con i boss mafiosi dell'epoca successiva.
LA MAPPA DEL MALAFFARE
In quegli anni si delinea una precisa «geografia del malaffare». Intere contrade nel cuore della città erano fatiscenti, così i quartieri storici dell'industrializzazione a ridosso dei Bastioni. A cominciare dai sobborghi di Porta Ticinese e Tenaglia, dove covavano criminalità e tumulti. «Il quartiere Ticinese, sede delle Colonne di San Lorenzo, era considerato uno dei più pericolosi della città», oltre che centrale economicamente per le fabbriche e il porto della Darsena. I milanesi erano «allo stesso tempo attratti e atterriti» da quel dedalo di vie. Da vicolo Calusca, «antro ignorato da quasi tutta Milano» con il suo «losco» bordello, a via Scaldasole e via Arena, le più malfamate, vicolo delle Corde, piazza Vetra, dove spadroneggiava una temuta ligéra, piazza Fontana, il rione Garibaldi-Repubblica.
Strade che andavano sui giornali «per le loro costruzioni fatiscenti, per le passeggiatrici, per quelle donne che troppo spesso finivano uccise per poi essere ritrovate dai bambini che giocavano fra le macerie o negli angoli bui, in buona parte già mangiate dai topi. O per i loro balordi e delinquenti». Ancora: per le risse sanguinose, le gesta della «teppa», le osterie mal frequentate. E per le rapine della «Scopola» di Porta Magenta, che nel 1906 fece parlare di sé come prima banda organizzata e con l'omicidio del lattaio di via Washington. Ogni commissariato compilava elenchi periodici di luoghi «di cattiva reputazione» o «dubbiosi ed equivoci». Soprattutto bettole: ce n'erano di pessime nelle oggi griffate via Solferino e corso Como.
L'ARRIVO DI JOE
La svolta arriva nel secondo Dopoguerra. Si passa dai «ladri di polli», la piccola criminalità di estrazione popolare e di sussistenza, alle strutture criminali che spadroneggeranno negli anni Cinquanta e Sessanta. Dopo il '45 «iniziarono a vedersi i frutti della spaventosa palestra rappresentata dal conflitto mondiale e dalla guerra civile». Poi i primi traffici di droga con contatti oltreoceano e il controllo della malavita organizzata. Lo spartiacque è l'arrivo a Milano dagli Stati Uniti, nel 1958, del boss Giuseppe Doto, alias Joe Adonis. Sono due i fenomeni nuovi: «La grande violenza scatenata durante le rapine» come quella a colpi di mitra di piazza Wagner nel 1957 e quella dei marsigliesi nel 1964 in via Montenapoleone. E la penetrazione in città della criminalità organizzata «d'importazione», lo sbarco delle famiglie mafiose. La polizia in questa fase risponde con mezzi scarsi. Nel 1946 la Squadra mobile aveva a disposizione appena due auto e otto fucili mitragliatori.
BISCHE E MITRA
La delinquenza comune e di quartiere declina, i criminali scoprono il mitra e le macchine e dimenticano le radici popolari.
Si apre la strada ai Turatello e agli Epaminonda, a bische e regolamenti di conti. «Milano, alla fine del 1967, era ormai diventata la città dei mitra, che ricordava gli anni Venti negli Stati Uniti e dove prendevano piede, sempre di più, il racket del gioco e della prostituzione, il contrabbando».
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