Chi avrebbe mai immaginato il grosso successo commerciale dell'ultimo Bob Dylan? Lui, cambiando sempre per non cambiare mai, nel 1997 ha conquistato due Grammy e ha venduto 2 milioni e mezzo di copie con Modern Times e nel 2009, con Together Through Life, è arrivato per la prima volta nella sua carriera al numero uno delle classifiche di mezzo mondo. E si becca anche la nomination al Nobel per la letteratura. Ma la sua vita è il palco, infatti prosegue quel «neverending tour» iniziato nel 1989, che continua senza sosta caracollando da un capo all'altro del mondo. Sabato domenica e lunedì sarà agli Arcimboldi per tre concerti consecutivi, quei concerti che solo lui sa fare stravolgendo ogni volta in modo diverso i suoi classici. Nessuno gridi allo scandalo se definiamo Bob Dylan il Messia del rock. Lo è per mille motivi; per il seguito che ha, per il provocatorio piglio profetico, per l'indole biblica di certe sue parabole in cui se la giocano - senza mai sopraffarsi - dannazione e salvezza. Lui arriva, sale sul palco senza guardare in faccia nessuno, gli occhi raggrinziti che fissano un punto nel vuoto, sempre più spesso dietro alle tastiere che con la chitarra a tracolla, un po' gnomo un po' cowboy un po' aedo moderno, mito da sempre impegnato a smarcarsi perché il mito stesso non lo imprigioni. Non parla con nessuno e chi lo ama è obbligato a fare al tempo stesso da difensore e da pubblica accusa. Il suo manager Jeff Rosen racconta che Dylan «è maniacale nel prendere iniziative straordinarie per tutelare la sua immagine, che così cresce continuamente di valore». Ma a cosa serve un Dylan che parla?Basta ascoltarlo cantare, o meglio berciare con una voce tanto evocativa quanto ineducata che se ne infischia delle regole armoniche, che a tratti domina le canzoni e a tratti ci affoga dentro; una voce flebile e di cartavetro che a volte annaspa a fatica ma ti inchioda lì, sia che ti racconti come «si bussa alle porte del Paradiso», sia che annunci le rivoluzioni spiegando che «i tempi stanno cambiando».
È la voce anarchica e indefinita dei vecchi bluesmen che ha tanto amato (da Charley Patton a John Lee Hooker con cui si esibì agli esordi al Greenwich Village) ma anche quella di un marinaio ubriaco fradicio che trasforma Blowin In the Wind in un lentissimo valzer irriconoscibile ma ammaliante.
Non è roba per orecchie educate ma per gente cresciuta con gli sfuggenti glissati delle «blue notes» o con la poesia anarchica del folk e del rock.
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