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Sala si arrende agli ultrà Ora fa l'erede di Pisapia

Mister Expo archivia diversità e rinnovamento Teme la sconfitta e si aggrappa alla continuità

Sala si arrende agli ultrà Ora fa l'erede di Pisapia

«Beppe e Giuliano insieme per Milano». Il verso non sarà raffinatissimo ma politicamente dice tutto: Sala da oggi fa rima con Pisapia. Ed è un'edificante serata all'Elfo Puccini a sancirlo, dopo settimane di politi, bracci di ferro e colpi bassi nella sinistra milanese in pienna febbre elettorale. Lo slogan dell'incontro a teatro è quanto di più eloquente: «Milano continua così» e i renziani milanesi lo traducono in un classico del politichese: «Proseguire e rinnovare». Difficile stabilire chi dei due (Sala o Pisapia) abbia fatto un passo indietro. Forse entrambi. Nel «volemose bene» c'è la resa di Pisapia, che nello stesso teatro aveva tuonato contro i diktat renziani. Ma non da meno è la resa del candidato sindaco.

Beppe Sala abbandona i sogni di rinnovamento le velleità di discontinuità. E si accontenta, se va bene, di presentarsi a elettori e partiti come l'erede di Pisapia. L'operazione, maturata nelle travagliate ultime settimane di primarie ieri è stata perfezionata, anche esteticamente. Il posto d'onore a teatro è stato riservato al sindaco, accolto da ovazioni da stadio dei militanti. Il candidato sindaco si è seduto accanto, fra Pisapia e la sua vice, Francesca Balzani. E ha ascoltato, per tutta la sera, una sorta di preghiera: «Vai avanti così», insomma, cerca di essere un po' come noi. Esortazione non infondata, se è vero che nella sua «precedente vita» Sala era il numero uno del Comune durante il mandato di coloro che - per Pisapia - hanno (notare il sobrio giudizio) «distrutto» la città.

Il corto circuito è in agguato. «Milano continua così» dunque è tutto un programma. E dal punto di vista di Sala è più rinunciatario perfino del tormentone di Pierfrancesco Majorino, «Come prima, più di prima», che aveva il pregio di lasciar intravedere almeno la speranza di qualcosa in più. Sala no. Non più. E pensare che, nelle settimane di riflessione sulla discesa in campo, l'allora commissario Expo aveva puntato molto sulla sua «alterità». L'idea era quella del tecnico prestato alla città, il manager che - rispondendo alla chiamata del Paese, impersonato dal premier Matteo Renzi - si mette a disposizione della sua città, ma con programmi e compagni di viaggio del tutto diversi dagli uscenti. Il progetto peraltro coincideva con le ambizioni del Pd, che dopo gli affanni della stagione arancione aveva deciso di entrare a Palazzo Marino dalla porta principale (forte dei voti ottenuti alle Europee).

Ebbene, questo progetto politico, che aveva scatenato il dualismo fra Renzi e Pisapia, è naufragato. Si è infranto giorno dopo giorno sugli scogli della politica.A partire dalla resa sulle primarie, chieste dal Pd locale (soprattutto dalla minoranza interna) e accettate obtorto collo da quello renziano e romano. La centrifuga delle primarie ha restituito uno scenario del tutto nuovo, anche perché i «gazebo democratici» hanno chiarito che - dati alla mano - la sinistra del centrosinistra è ancora maggioranza; e i centristi che sembravano attratti dal «mister Expo» hanno preso altre strade (molti quella del centrodestra). Così il sogno del manager renziano Sala è finito.

L'appello di Renzi non è mai arrivato e i compagni di viaggio sono sempre loro: gli arancioni. La serata è una sfilza di velleità, vezzi ideologici e omissioni (le stangate fiscali, su tutte). Gli assessori uscenti sono l'anima della campagna elettorale di Sala. E le forze che lo sostengono sono le stesse che appoggiavano Pisapia (Rifondazione esclusa). Sala ha archiviato l'idea della diversità - forse per timore di perdere. Spera di tenere i voti di Majorino e Balzani. E quelli del 2011, a colpi di «continuità» e magliette col Che Guevara. Ma suscita due (enormi) dubbi.

Il primo: questo nuovo vestito arancione fa per lui? È in grado Sala di tenere insieme - come Pisapia - centri sociali e lobby tecnocratiche centriste e borghesi? E, soprattutto, gli elettori milanesi hanno voglia di continuità? O hanno piuttosto bisogno di cambiare?

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