Luigi Mascheroni
Quelli che Beppe Viola non lhanno mai visto alla tele perché dicono che il calcio non è tutto nella vita. E poi allora non cerano i videoregistratori... Anche le quattro figlie di Viola Giuseppe, in arte Beppe, non sono tifose e non hanno (quasi) mai visto papà in tivù: la più grande aveva quindici anni, la piccola appena tre in quel giurassico 1982 passato alla storia del calcio italico per due motivi, di cui solo uno fausto: la vittoria al Mundial di Spagna e la morte di lì a tre mesi del cronista della pedata più irriverente, curioso e anti-epico di sempre. Quattro figlie, dopodiché andò a farsi fare la vasectomia: si sentiva in colpa, visto che pacche sulle spalle e complimenti tanti, ma soldi sempre gli stessi... «Alle persone si presentava dicendo: Piacere, sono sterile, papà era serissimo nello scherzo». Anna è la terza: ha 36 anni, un marito, due figli, un lavoro di operatore sociale nel carcere di Bollate e non è mai entrata in uno stadio in vita sua: «Neanche la mamma e le mie sorelle se è per quello. Ma papà ci rideva su. Considerava il suo un lavoro come tanti, in casa mai parlato di calcio con noi...».
Giuseppe Pipinoeu Viola in realtà principiò a parlare di calcio giovanissimo, a metà degli anni Cinquanta collaborando alla ormai mitica agenzia Sportinformazione - «Credo scrivesse le didascalie, almeno allinizio» - fino allentrata in Rai, nel 1961, terzo piano del Palazzo di corso Sempione 27, dove fu assunto facendo trafila e gavetta e soprattutto rispondendo con un sommesso No alla domanda Scusi, lei è un comunista?. Allesame di Stato per diventare giornalista, invece, davanti alla commissione presieduta da Enzo Biagi che credeva di mettere in difficoltà il candidato chiedendogli Secondo lei, Fanfani nello schieramento della Dc sta a destra o a sinistra? se la cavò con un sornione Dipende dai giorni.
Dipendeva dai giorni se il Beppe Viola - battutista di razza e uno abituato, da milanese, a mettere larticolo davanti ai nomi, da il Rivera a il Lauda - dovesse occuparsi di automobilismo, ippica, pugilato o calcio. Ma quando il calcio era unaltra cosa. «Oggi se un calciatore deve dire qualcosa, indice una conferenza stampa. Allepoca andava in trattoria coi giornalisti. Un giorno papà fece una lunghissima intervista a Rivera in tram, da casa sua a San Siro: simmagina una cosa del genere oggi con Totti? Credo che fosse questa la cosa del suo lavoro che gli piaceva di più».
Gli piaceva così tanto il suo lavoro che da redattore divenne inviato, da inviato radiocronista e poi telecronista, ruolo nel quale si fece notare la prima volta, stagione 62-63, in occasione della finale europea Milan-Benfica: causa improvvisa interruzione audio si trovò a commentare in diretta dallo studio le immagini mute: lo fece senza battere ciglio guadagnandosi in un colpo solo la riconoscenza dei dirigenti e la simpatia degli sportivi. Sapeva sgonfiare il pallone a colpi dironia, ma con rispetto, il ragazzo. Era uno che per sembrare un genio avrebbe dovuto essere completamente diverso, disse una volta di un bidone. Uno per il quale anche il calcio è cabaret...
Camicia stazzonata, maniche rimboccate, sudato e sigaretta sempre accesa, il ragazzo cambiò il mondo di raccontare il calcio: più distacco e meno sacralità, più umorismo e meno pedanteria. I tifosi, ancora oggi, ringraziano. I suoi servizi (quando commentava ... partita noiosa, nella quale i tiri in porta si sono contati sulle dita di una mano. Di un monco... o quando mandava le immagini di un derby di cinque anni prima ...perché tanto quello di questa domenica non vale la pena vederlo...) facevano venire le coliche a Tito Stagno e la colina agli affezionati della Domenica Sportiva.
«La Domenica? Mai visto papà di domenica: una volta il Gran premio, unaltra la partita... in compenso mi ricordo i sabati passati in giro con lui, a trovare i suoi amici: il barbiere dietro la casa del Manzoni, un restauratore di mobili lì vicino, la pasticceria dove andava sempre... In casa ci stava poco, anche se poi si sentiva quando cera. Era - come dire? - una presenza forte. Incapace di essere severo, soprattutto per quanto riguarda la scuola - a quella ci pensava mamma - però rigido e coerente sui valori, e soprattutto generoso. Non sapeva dire di no. Così come non sapeva fare a meno degli amici. Casa nostra è sempre stata un porto di mare: la gente del quartiere, i suoi colleghi, calciatori, arbitri, allenatori, quelli del Derby, a partire da Jannacci che erano come fratelli...». Jannacci e Beppe Viola, quelli che lamicizia prima di tutto. «Da piccoli le loro case avevano il cortile in comune, tra piazza Adigrat e via Lomellina, al di qua dei campetti dellOrtica dove andavano giocare al pallone. Erano inseparabili e quando Enzo divenne direttore artistico del Derby, ci portò anche papà».
Papà Beppe Viola, che non era uno di quelli che scrivono i libri perché hanno dei figli da mantenere, scriveva per mestiere ma scriveva anche per hobby («Me lo ricordo: sempre alla macchina da scrivere»): cronache per Il Giorno, articoli per il popolare Intrepido e racconti per lintellettuale Linus, sceneggiature e dialoghi per il cinema, testi per canzoni, pubblicità e il cabaret. «Non era tanto per i soldi, lo faceva perché si divertiva: al Derby erano tutti suoi amici: oltre Jannacci, Dario Fo, Cochi e Renato, Abatantuono, Boldi, Teocoli, Pozzetto...». Lo stesso gruppo che poi si ritrovava al bar-pasticceria Gattullo, in Porta Lodovica, dove alla domenica, allora dellaperitivo pre-partita, apriva il fantomatico Ufficio Facce, la cui attività consisteva nello squadrare gli avventori-tifosi e in base a precise regole fisiognomiche, indovinare la squadra dappartenenza. Beppe Viola, si dice, era infallibile nel riconoscere i milanisti, la sua stessa razza.
«Se cè una cosa che mi ricordo di papà è proprio come osservava le persone, anzi i personaggi come diceva lui, i tipi che si aggiravano per Milano, quelli un po strani, al limite del balordo: guardava come parlavano, come si muovevano e poi lui li trasformava in macchiette per gli spettacoli, in spunti per una battuta o per costruirci attorno una serata a cena a raccontare storie...».
Uno che lo conosceva bene ha detto che Beppe Viola, dopo Giancarlo Fusco, era il più grande narratore di storie davanti a un whisky o anche a un semplice bianchino. Quelli che bevono, mangiano, fumano, scrivono, parlano e non staccano mai. Viola Giuseppe, per tutti Beppe, morì una domenica pomeriggio di metà ottobre dell82, sul tardi, mentre montava un servizio filmato per la Domenica Sportiva, in Rai, corso Sempione 27. Ictus. Già non stava bene, ma el mesté lè el mesté.
I funerali partirono da casa sua, in via Sismondi. «Me lo ricordo, cera una marea di gente. Amici, giornalisti, calciatori, arbitri, tutti quelli del giro. Ma anche gente comune, tantissima. Gli volevano bene». Donò i suoi organi.
Guardiamo avanti, coraggio. Il meglio è passato.
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