«Mio padre, giustiziato dai gappisti su ordine del Pci»

La guerra civile, dall’8 settembre del ’43 alle settimane successive il 25 aprile del ’45, lasciò dietro di sé morti di entrambe le parti. Partigiani, fascisti, repubblichini, gappisti, civili: rimasti vittime di imboscate, attentati, esecuzioni sommarie, vendette. E Milano, in questo, non si tirò indietro. «Fu una stagione drammatica, per tutti. Che esplose all’improvviso, bagnando la città di sangue e lacrime». Gianfranco Resega, che oggi ha 84 anni, versò l’uno e le altre. Suo padre, il federale Aldo Resega, capo del fascismo di Milano, fu ucciso davanti a casa, e lui stesso rischiò la pelle più di una volta. «Nel ’43 avevo 21 anni. Mio padre pochi giorni dopo l’8 settembre, appena firmato l’armistizio e contemporaneamente all’insediamento all’Hotel Regina del comando della Gestapo, costituì la sezione milanese del Partito fascista repubblicano. In quel momento la città era tranquilla e papà si accordò con il comando tedesco per mantenere la popolazione in uno stato di normalità, frenando gli eccessi degli squadristi e impedendo rappresaglie contro i partigiani».
Fu la stessa direzione del Partito comunista a ordinare l’eliminazione di Aldo Resega, in quanto personaggio moderato che di fatto ostacolava lo scoppio della guerra civile: fu ucciso da un commando dei Gap la mattina del 18 dicembre 1943. «Fu uno dei primi atti importanti da parte dei partigiani che volevano trascinare Milano nel caos. Dopo la morte di mio padre cominciarono davvero i guai, per tutti. Papà, che oltre che essere federale era all’epoca dirigente di un’azienda che produceva gomme, tutte le mattine prendeva il tram per andare a lavorare. Anche quel giorno uscì da casa, in via Bronzetti. Lo aspettavano in quattro. Uno, che lo conosceva di vista, diede il segnale. Un altro faceva da palo. Gli altri due spararono. Quattro colpi».
Gianfranco Resega in quel momento era in caserma, ufficiale della Guardia nazionale repubblicana, a qualche centinaia di metri dal luogo dove era appena morto suo padre. «Ero in servizio. Mi hanno telefonato, andai subito a casa... il corpo era ancora per terra... Non seppi subito chi l’aveva ucciso. Lo scoprii tempo dopo: sull’Unità, nell’aprile del ’48, uno di quei gappisti raccontò come avevano preparato l’attento. Diceva che lo avevano aspettato altre volte, ma avevano rinunciato all’ultimo momento perché c’ero anch’io, che sapevano ero sempre armato. Papà invece usciva in borghese, senza pistola».
Gianfranco Resega visse a Milano, fra attentati e rappresaglie, fino alla Liberazione. «Lasciai la città il 26 aprile, all’entrata degli americani. Ripiegammo su Como. Dopo, successe di tutto, ci furono molti morti, molta rabbia.

Bastava che uno indossasse la divisa e veniva ammazzato sul posto. E molti andavano a prenderli a casa. Tornai a Milano dopo un anno». Proprio poco dopo l’esecuzione del capitano Giovanni Folchi. Come lui, un ragazzo di Salò.

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