La crisi del Venezuela spiega meglio di ogni altra cosa l'allontanarsi di papa Francesco da quelle esigenze del popolo che pure sono al centro del suo Magistero e dei suoi interventi «politici», soprattutto verso i paesi dell'America Latina. Non c'è dubbio che il popolo sia una costante negli interventi del Papa: «Non è una categoria logica, è una categoria mistica», disse nella conferenza stampa di ritorno dal Messico il 17 febbraio 2016.
Ma non c'è dubbio che politicamente egli identifichi gli interessi del popolo nei partiti di sinistra, socialisti, e nei leader populisti latino-americani. In questi mesi il Papa ha fatto di tutto per sostenere discretamente il dittatore Nicolas Maduro, quando invece i vescovi venezuelani hanno sempre additato lui e il suo predecessore Hugo Chavez come la causa del disastro economico e sociale. Alla vigilia della grande manifestazione popolare di mercoledì scorso, anniversario della rivolta del 23 gennaio 1958 che liberò il paese dal dittatore Marcos Perez Jimenez, i vescovi hanno pubblicato un lungo documento che sposa appieno le richieste del movimento democratico e chiedono le dimissioni di Maduro. Il Papa invece si è sempre rifiutato di prendere apertamente le difese di un popolo vessato dal dittatore. Rivelatore l'«incidente» dello scorso 20 maggio: nel discorso alla recita del Regina Coeli in piazza San Pietro, secondo il testo distribuito ai giornalisti il Papa avrebbe dovuto rivolgere un chiaro appello alle autorità venezuelane per il rispetto del diritto alla vita soprattutto dei detenuti politici. Ma il Papa a quel punto del discorso ha parlato a braccio invitando tutte le parti a trovare la strada della pace, tacendo completamente sulle torture ai prigionieri politici.
Anche il messaggio Urbi et Orbi del giorno di Natale è stato fonte di contestazioni: ricordando le tante situazioni di crisi, papa Francesco invocava la concordia tra tutte le parti in conflitto. In un gesto senza precedenti venti ex presidenti dell'America Latina, tra cui Oscar Arias (Costa Rica), Felipe Calderon (Messico), Alvaro Uribe (Colombia) hanno scritto una lettera al Papa contestando questa ostentata equidistanza che non riconosce che «i venezuelani sono vittima di una oppressione di una narco-dittatura militarizzata».
Papa Francesco non ha risposto direttamente alle critiche, ma giovedì scorso a Panama ha esordito tessendo le lodi di Simon Bolivar e del suo sogno della «Grande Patria» (Colombia, Venezuela, Ecuador e Panama). Il bolivarismo è però anche il punto di riferimento per il socialismo latino-americano del XX secolo. Sulla stessa lunghezza d'onda c'è un altro amico di papa Francesco, il presidente boliviano Evo Morales che in occasione della visita in Bolivia del luglio 2015 ebbe il cattivo gusto di regalare al Pontefice un Cristo crocifisso piantato sul simbolo comunista della falce e martello. Anche i vescovi boliviani si trovano su tutt'altra lunghezza d'onda rispetto al Pontefice, che invece ha voluto al suo fianco Morales nei primi due incontri dei movimenti popolari da lui organizzati (nel 2014 e 2015), il primo a Roma e il secondo proprio in Bolivia.
È chiaro che papa Francesco ritiene i leader socialisti gli interpreti autentici dei bisogni del popolo, anche quando questo dimostra chiaramente di non gradire certi regimi. È così anche per Cuba. Rapporti cordialissimi anche con il presidente socialista dell'Ecuador, Rafael Correa, invitato al convegno in Vaticano nell'aprile 2016 per celebrare i 25 anni dell'enciclica Centesimus Annus di Giovanni Paolo II assieme all'allora candidato presidenziale statunitense Bernie Sanders, un altro socialista radicale.
Ma in America Latina il vento sta cambiando rapidamente: il popolo sudamericano ha già pensato a chiudere la parentesi socialiste in Argentina e Brasile. Risultati che non piacciono certo al Papa che però prima o poi dovrà fare i conti con un popolo reale che se ne infischia delle teorie politiche che vanno di moda in Vaticano.
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