Caro direttore, ecco perché vado in Siria

Non sono partito a cuor leggero, ma raccontare quanto sta succedendo è fondamentale

Caro direttore, ecco perché vado in Siria

Caro Direttore, colleghi e lettori,

lo so, in molti pensate che mi espongo ad un rischio esagerato. Non avete tutti i torti. Neanch'io sono partito per la Siria a cuor leggero. Ma ho voluto venirci lo stesso. Lasciate che vi spieghi perché. Qui dal 2011 si combatte una guerra civile che oltre ad aver falciato 200mila morti ha generato un mostro chiamato Stato Islamico. Eppure per quasi tre anni in Italia e in Europa molti hanno interpretato la genesi di quel mostro come un anelito di libertà e democrazia. Ottenebrati da questa svista fatale siamo riusciti a dimenticare le nostre radici, a scordare che qui, sulla strada di Damasco, è iniziata la tradizione cristiana. Da quella tradizione, dalla simbiosi di fede e ragione, dalla capacità d'interpretare il mondo non attraverso i dettami di un libro, ma attraverso la compassione e la comprensione dell'altro sono nati il pensiero liberale, gli Stati nazionali europei e il rispetto per i diritti umani.

Eppure invece di batterci per i cristiani del Medio Oriente e per la nostra tradizione abbiamo preferito schierarci al fianco di chi uccide il prossimo nel nome di Dio. Per tre lunghi anni abbiamo cullato il mostro scambiando il fanatismo per democrazia e libertà. Ora il mostro è tra di noi e il risultato sotto gli occhi di tutti. Per questo raccontare quel che succede in Siria è fondamentale.

E non solo per comprendere cosa rischiano i cristiani del Medio Oriente, ma anche per capire cosa rischiamo noi permettendo che quella bandiera nera disegnata sopra San Pietro si trasformi da minaccia in realtà. Per questo i nostri lettori hanno finanziato i nostri reportage sui Cristiani perseguitati. Per questo non ho potuto fare a meno di partire.

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