Lo scorso 26 novembre la responsabile per le pubbliche relazioni del GMI, Chaima Faithi, ha pubblicato un post dove dichiarava che “il terrorismo islamista non esiste” e lanciava un monito ai giornalisti : “dosate al meglio i termini che usate e le loro accezioni, perché potrebbero creare danni irrimediabili”. Un’uscita che non fa una piega e infatti per la Faithi il braccio palestinese dei Fratelli Musulmani, Hamas, sarebbe un “movimento partigiano”; partigiano, dunque “di parte”, quale parte? I Fratelli Musulmani sono un’organizzazione islamista, su questo non ci piove, basta studiarne la storia, il simbolo, l’evoluzione e il manifesto di fondazione; organizzazione tra l’altro messa al bando in Egitto, Russia, Siria, Emirati Arabi ed Arabia Saudita per legami con il terrorismo e tutt’ora sotto inchiesta in Gran Bretagna. Hamas a sua volta è considerata organizzazione terrorista in numerosi paesi tra cui Canada, Stati Uniti, Giappone, Egitto, Israele e UE; l’organizzazione è stata in più occasioni coinvolta nella morte di civili israeliani ma anche in assalti nei confronti di palestinesi legati ad al-Fatah in territorio di Gaza. E dunque possibile, anche solo dopo questa breve parentesi, sostenere che “il terrorismo islamista non esiste”? Mettendo da parte le esternazioni e le contraddizioni di Chaima Faithi, già egregiamente analizzate da Gabriele Zweilawyer in un articolo del Progetto Dreyfus, credo sia invece importante andare un po’ più a fondo sul termine “terrorismo” per valutare se esiste oppure no, come sostenuto dalla Fathi, una versione “islamista”.
Oggi come oggi non esiste una definizione universalmente accettata di “terrorismo” e ciò va di pari passo col fatto che alcune organizzazioni possono essere considerate terroriste da alcuni paesi ma non da altri. Un esempio lampante è quello del PKK e di Hamas in Turchia, dove mentre il primo è catalogato come formazione terrorista, il secondo è considerato movimento di resistenza. Stessa cosa per i Fratelli Musulmani, considerati come “organizzazione islamista” in paesi come Turchia e Qatar, ma messa al bando in Russia dal 2003, con tanto di sentenza della Corte Suprema, per supporto al terrorismo islamista ceceno di Emir Khattab e Shamil Basayev. Purtroppo il termine “terrorismo” spesso viene declinato e adattato in base alle necessità di chi lo utilizza, in base ai target dei “terroristi”, se “alleati” o “nemici”, ma non è certo questo il metodo idoneo per una corretta prospettiva. Se si vuole combattere il terrorismo a livello globale, bisogna avere un’idea ben precisa: un comun denominatore piuttosto generico per definire il termine “terrorismo”, potrebbe far riferimento a una “strategia dove un determinato gruppo utilizza specifiche tipologie di violenza per fini politici”. Mescolare il “terrorismo” con altri termini come “movimento di liberazione”, “movimento partigiano” o “movimento contro l’occupazione” non porta a nulla perché ciò che distingue il terrorismo sono le modalità di azione e non lo scopo, la causa. Chi sono i bersagli degli attacchi? Nell’aprile del 1998 durante un incontro al Cairo della Lega Araba si era stabilito che quelle attività violente che avevano come obiettivo la liberazione e l’auto-determinazione non andavano catalogate come terrorismo; un’ipotesi piuttosto subdola e con evidenti motivazioni politiche.
Nel luglio del 2002 la saudita Muslim World League aveva pubblicato “il punto di vista islamico” per quanto riguarda la definizione di terrorismo: “…..un oltraggioso attacco perpetrato da individui, gruppi o stati nei confronti dell’essere umano (e la sua religione, vita, intelletto, proprietà e onore). Include tutte le forme di intimidazione, danno, minacce, uccisione senza giusta causa”. E’ quel “senza giusta causa” finale che rende la definizione ambigua perché ancora una volta, invece che sul modus operandi, si focalizza tutto sulla motivazione, sulla “giusta causa”. La definizione diventa ancor più confusa in un’ulteriore clausola dove si afferma che “…il jihad è stato ordinato per eliminare tutte le forme di terrorismo, per difendere la propria terra dall’occupazione, il saccheggio e il colonialismo”. Boaz Ganor, analista anti-terrorismo e direttore dell’ICT di Herzliya, ha messo in evidenza un particolare interessante per quanto riguarda la definizione di terrorismo del Dipartimento di Stato Usa: “…violenza premeditata e politicamente motivata, perpetrata contro obiettivi non-combattenti per mano di gruppi sub-nazionali o agenti clandestini, solitamente con l’obiettivo di influenzare l’audience”. Ganor sottolinea come gli Usa abbiano utilizzato il termine “non-combattenti”, specificando così che potenziali attacchi contro militari che non si trovano in status di combattimento sono comunque da considerare come attentati terroristici. Un esempio? L’attentato alla USS Cole nel 2000; il sequestro del riservista israeliano Gilad Shalit. Secondo Ganor però tale tipologia di attacco ricadrebbe nella categoria di guerrilla più che di terrorismo, visto che gli obiettivi sono dei militari. Dunque come si potrebbe definire terrorismo? L’analista israeliano non ha dubbi: “Uso deliberato di violenza, diretta contro civili, per raggiungere obiettivi politici”.
Secondo Ganor motivazioni, cause e considerazioni soggettive non possono stabilire ciò che è o non è terrorismo. D’altro canto è però vero che il metodo con cui viene perpetrata l’offensiva terrorista ha delle motivazioni politiche, dunque una volta che sono stati riscontrati gli estremi per tale definizione, è chiaro che bisogna collegarlo a un determinato piano ideologico. Negli anni 70 c’erano le Brigate Rosse, organizzazione che non rappresentava certo tutto il panorama comunista italiano ma che si riconosceva nell’ideologia comunista, dunque è difficile affermare che i brigatisti non fossero terroristi attivi nella lotta armata rivoluzionaria per il comunismo. Il ragionamento può dunque essere applicato anche all’Islam; è chiaro e ovvio che non tutti i musulmani sono terroristi, ma è altrettanto evidente che certi gruppi che bersagliano civili lo fanno in nome di una loro interpretazione dell’Islam, spesso facendo riferimento a fonti e a “sapienti” che possono essere riconosciuti come legittimi dai fanatici.
Un esempio? Sheikh Ahmed Yasin, capo spirituale e fondatore di Hamas, che in più occasioni aveva invocato attacchi anche contro civili israeliani, attacchi poi perpetrati dal gruppo jihadista. Yasin godeva di autorità religiosa ma anche politica. Esiste dunque un “terrorismo islamista”?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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