È dimostrato dai fatti, tristi ma non sorprendenti: non si possono adottare popoli di fuggiaschi come branchi di cuccioli confidando nel buonismo paternalista, perché prima o poi i nodi vengono al pettine e il principio di realtà produce disastri e poi spargimenti di sangue. Lo dimostra una volta di più una documentata inchiesta del New York Times: all'inizio del tredicesimo mese di adozione da parte delle famiglie canadesi di decine di migliaia di profughi siriani, il Canada intero comincia a odiare i profughi mentre serpeggia un movimento (subito bollato come «di estrema destra») che sostiene la necessità di cacciare i siriani a pedate per ingratitudine. La colpa in realtà non è dei siriani, ma piuttosto dei canadesi che adorano presentarsi come i «buoni americani» contrapposti a quelle carogne a stelle e strisce.
In breve: i profughi siriani, accolti come animaletti esotici anziché come persone complesse con cultura, tradizione e storia lontanissime da quella americana, hanno molto gradito l'ospitalità generosa e gratuita, i vestiti pesanti, i pasti, i corsi di pattinaggio su ghiaccio per i bambini, ma hanno puntato i piedi quando si è trattato di accettare una vera integrazione e persino le sue premesse più ovvie, come imparare l'inglese, cercarsi un lavoro, scomodarsi a usare i mezzi pubblici. Tutto è accaduto con la fine dei benefici gratuiti previsti per 12 mesi e l'inizio, a marzo, del tredicesimo.
Le grandi famiglie allargate e integrate di nonne, mamme, bambini, mariti, nuovi fratelli e nuove sorelle, si sono dissolte di colpo con la fine del sostegno del governo. Dal lungo rapporto analizzato dal più grande giornale liberal si capisce che la colpa è dei vanitosi benefattori i quali hanno innaffiato dei poveri (per lo più) contadini siriani fuggiti dalla guerra con bancomat, schede prepagate, pasti confezionati, lezioni e intrattenimenti gratuiti, senza spiegare che la ricchezza si produce e non la si consuma soltanto. Fra i rifugiati ci sono anche molti laureati e tecnici, ma non sanno parlare inglese né muoiono dalla voglia di studiarlo. Inoltre, le parentele rimaste in Siria chiedono loro soldi in modi brutali e ricattatori, sicché molti profughi, specialmente i più giovani, si sono ridotti a rubacchiare piccole somme per poterle spedire in Siria, mentre fra loro crescevano angoscia e delusione.
Con l'angoscia è svanita anche la voglia di nutrirsi: «Perché state tutti dimagrendo?» chiedeva loro nelle riunioni Roula Ajib, responsabile per il programma governativo. Haji, 36 anni, rispondeva: «Perché ormai abbiamo paura». La peggior paura dei profughi è di essere maledetti dai loro vecchi rimasti in Siria che telefonano urlando e chiedendo soldi. Quando i giovani hanno spiegato che non potevano spremere altre risorse dai loro ospiti, ci sono state scenate intercontinentali di imprecazioni e crisi di rabbia che hanno prodotto la distruzione fisica di molti telefonini cellulari canadesi. Ma intanto la crisi investiva anche i buonisti canadesi che si aspettavano dai loro ospiti addomesticati come cagnolini, integrazione totale, riconoscenza infinita e rispetto coloniale di regole di cui i nuovi venuti non sapevano nulla.
La crisi degli autobus è stata esemplare: abituati a essere scarrozzati in macchina per ogni esigenza, quando si sono visti consegnare la mappa degli autobus con le coincidenze da prendere, si sono indignati. Non ci capivano nulla in quella rete e non volevano ritrovarsi sperduti nella metropoli senza sapere dove andare incapaci di esprimersi. Un disastro. Le famiglie ospiti, che avevano finora retto grazie al budget governativo, ora vedono crescere il rancore e il panico nelle loro case, mentre spariscono borsellini, bancomat e tutti gli oggetti vendibili al mercato nero nato e prosperato grazie ai profughi.
Con poca generosità, il villaggio dei glorificati benefattori era scosso dall'ira e dai ripensamenti: «Questa gente non apprezza quel che facciamo per loro, e ora ci si rivolta contro».
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