"Così i jihadisti torturano noi gay"

Il racconto di due giovani siriani omosessuali scappati in Turchia per sfuggire alla mannaia dei terroristi islamici

"Così i jihadisti torturano noi gay"

“Portalo su una montagna, poi buttalo giù e gettagli delle pietre”. “Uccidete chi sta fornicando e chi è fornicato”. “Dio lo punisce e non lo accetta, Dio lo punisce e non lo accetta, Dio lo punisce e non lo accetta”. “Dio non li guarda nemmeno in faccia”. Sono le frase sconcertanti rivolte agli omosessuali nelle Hadith (racconti del Profeta) di Maometto. Vittime secolari delle rappresaglie delle popolazioni, gli omosessuali sembrano vivere, almeno nei paesi islamici, una repressione ancora più grande. Dalle precedenti torture dei governi, con l’avvento degli islamisti vengono ora gettati dagli edifici e poi lapidati.

Quando incontro Daniel (nome di fantasia), 25 anni, in un centro commerciale di Antakya (città della provincia dell’Hatay), mi dà subito confidenza. Purtroppo non è la norma né in Siria né in Turchia per un omosessuale parlare con uno sconosciuto. Troppo pericoloso. Si rischia semplicemente di essere insultato, arrestato, picchiato o addirittura, come succede nel peggiore dei casi, ucciso. Daniel ha ritrovato una stabilità parziale in Turchia, non si sente sicuro e cerca di passare sempre inosservato. “Sono scappato nel novembre del 2013 da Aleppo. Con me c’era un mio amico e due donne”, racconta Daniel. La tecnica delle donne è spesso usata tra le fila dei fuggiaschi per evitare di essere fermati dai checkpoint: “Se una delle donne a bordo della macchina è malata, allora i soldati islamisti, siano essi del ESL (Esercito Siriano Libero), del FAN (Fronte An-Nusra) o dell’ISIS, non ispezionano la macchina né chiedono le carte d’identità perché è impuro. Inoltre sarebbe stata una scusa in più per fingere di andare all’ospedale”.

Una volta raggiunto il villaggio di confine con la Turchia hanno incontrato un trafficante, che avevano pagato 5000 sterline siriane (circa 30 euro, con 60 una famiglia in Siria vive per un mese), e hanno cominciato a correre attraverso la frontiera. Dall’altra parte li aspettava una macchina che li avrebbe portati a Gaziantep. È così che la maggior parte dei siriani attraversano il confine. La stessa cosa fanno i cosiddetti “foreign fighters”, ovvero i soldati esteri che si uniscono alle file dei vari gruppi armati. Il confine quindi, si è trasformato in una specie di tessuto poroso dove i poliziotti controllano saltuariamente, ma quando scoprono non perdonano. “Mi sono convertito al cristianesimo quando ero più giovane, sono andato in chiesa con un amico e mi sono fatto battezzare. I miei amici lo erano tutti e pensavo che fosse una religione pacifica, al contrario dell’Islam che è così violento. L’ho fatto in segreto perché se no mi avrebbero arrestato".

In Siria non ci si può convertire ufficialmente perché se no si è trattati come dei dissidenti. Studente di inglese e traduttore per un’agenzia siriana, Daniel quando la rivoluzione è cominciata sperava in un paese nuovo, più libero e dove si potesse parlare di più. Tutto quello che voleva era avere più diritti. “Siamo andati nella direzione sbagliata, non dovevamo usare la forza delle armi. Ora non mi interessa più chi governa, ma solo la società e una nuova costituzione”. Daniel racconta che la vita di un omosessuale in Siria prima della guerra era molto pericolosa. Ma ora è a livelli indicibili. A Damasco e ad Aleppo le comunità erano molto chiuse. “Il problema era che una legge del governo vietava l’omosessualità e lo fa ancora. Solo al minimo sospetto la polizia aveva il diritto di arrestare e interrogare chiunque”.

Daniel sembra non essere turbato quando racconta queste storie, ma in lui un po’ di sgomento e soprattutto timore, sono visibili. “Ho sentito anche di abusi di omosessuali contro prigionieri islamisti. Per torturarli mentalmente portano due omosessuali davanti a loro e poi li obbligano a compiere atti sessuali. Li prendono dalle loro famiglie solamente per compiere queste oscenità. È una cosa orribile”. La quinta preghiera del giorno riecheggia nella città, fa strano pensare che a 20 km da Antakya si stia usando proprio questa preghiera per giustificare l’uccisione di innocenti. Daniel continua a raccontare la sua storia come se niente fosse. Personalmente dice di non aver mai dichiarato che era omosessuale, anche se confessa che molta gente lo sospettava e lo maltrattava. “Alcune volte, nelle strade venivo picchiato da gruppi di ragazzi. Una volta stavo tornando dalla scuola, era buio e non c’era nessuno. Hanno cominciato a parlarmi e poi mi hanno attaccato, tirandomi dei pugni e strappandomi la maglietta. Per fortuna sono riuscito a scappare, ma poi non ho potuto dire niente a nessuno”. Cercava sempre di tenere un profilo basso per evitare i problemi. “Per nascondermi non uscivo mai di casa se non per andare diretto al lavoro e tornare. Quando poi la guerra è scoppiata mi sono messo a lavorare per un’agenzia di fotografie. Al sentire l’esplosione correvo, facevo le foto e scappavo a casa”. Quando l’ESL è entrata ad Aleppo la situazione è peggiorata. Non è solo l’ISIS che minaccia e uccide gli omosessuali, ma tutti i gruppi armati. Il problema è che Aleppo ormai è divisa fra le varie fazioni, e essere fermati diventa sempre più facile. “Un attivista dell’ESL omosessuale è stato fermato, gli hanno controllato il telefonino trovando video e foto con un altro ragazzo. Non abbiamo sentito più nulla di lui”. L’ESL, secondo Daniel detiene molti omosessuali nelle sue prigioni: “Sono sicuramente molto più intolleranti del regime di Al-Asad”.

Una volta Daniel e la sua famiglia hanno visto la morte in faccia. Il loro cognome, conosciuto come fedele al regime di Damasco era ben noto, e in una situazione di guerra è facile che i propri vicini spifferino qualcosa per paura di rappresaglie. “Mi hanno arrestato, non perché ero gay, ma per il mio cognome e perché ero cristiano. Sono entrati in casa mia, hanno minacciato la mia famiglia e poi hanno ispezionato tutta la casa. Mi hanno picchiato e hanno insultato mia madre in modo pesante”. È stato in quel momento di confusione che Daniel ha deciso di dire ai suoi genitori che era gay. Ancora oggi non gli rivolgono la parola. “Sono scappato anche per non rendere la vita più difficile a loro”. Lo avevano sempre appoggiato per via della sua conversione, ma questo per loro era troppo. L’arrivo dell’ISIS però lo ha convinto a scappare. Sapeva che sarebbe morto se non lo avrebbe fatto. “Sono entrati in città ed hanno conquistato un checkpoint del ESL molto vicino a dove lavoravo, nel quartiere di fianco”. Era sicuro di avere le ore contate: “Un amico che aveva protestato con tutti noi si era unito alle loro fila, quindi sapevano tutto del nostro ufficio e chi eravamo”. La prima notte quindi, avrebbe lasciato la Siria. “Quando sono arrivato a Gaziantep ero completamente spaesato. Avevo paura di tutti i rumori, non riuscivo a dormire perché ero abituato a sentire le esplosioni. Inoltre ad Aleppo non c’erano più macchine e più luce”.

Ha lavorato per un’organizzazione siriana che lo discriminava per via della sua sessualità. “Mi pagavano 70 euro al mese, hanno provato ad arrestarmi senza che nessuno li fermasse. Ho provato a reclamare all’agenzia dei rifugiati dell’ONU (UNHCR) ma nessuno ha detto nulla”. L’ONU è solito comportarsi così. Perciò ha preso e si è spostato ad Antakya. Oggi fa il disegnatore e il traduttore in un’organizzazione internazionale e la situazione è migliorata molto. Fino ad ora non si ha un conteggio esatto delle vittime civili sotto il giogo dello Stato Islamico. Quello che si sa è che hanno delle maniere brutali di abbattere i prigionieri. Una fra le più violente è proprio quella perpetrata verso gli omosessuali: gettarli dall’edificio più alto della città e poi lapidarli. “È una regola basica dell’Islam, è scritto nelle Hadith di Maometto”, commenta sconcertato Daniel. “L’ISIS non fa nulla di male, sta semplicemente implementando il vero Islam, quello violento”. Quando commenta questi avvenimenti, Daniel si lascia scappare una qualche risata ironica, forse data dal nervosismo che giace in lui, comprensibile dal momento che si sente direttamente preso in causa. “Non sono gli unici, anche il Fronte al-Nusra e altre brigate compiono le stesse atrocità. Il problema è che si può essere uccisi solamente per un sospetto e senza certezza”. Daniel è molto attivo e vuole aiutare soprattutto gli omosessuali che ancora ignari della situazione, rischiano di cadere nelle mani di queste bestie. Per questo collabora anche con un magazine siriano chiamato Mawaleh, che tenta di documentare tutte le esecuzioni di gay in Siria e di renderle note. “Oggi a Homs hanno ancora ucciso un ragazzo solo perché sospettavano che fosse gay. Pubblicano le foto solo per spaventare la gente in tutto il paese. Si combattono fra di loro, non immagino nemmeno che ne farebbero di me. Voglio andare in Europa, è il mio sogno. Mi sono iscritto all’ufficio del UNHCR, ma il processo è lungo. Essendo un rifugiato per motivi sessuali, ci sono probabilità che io venga trasferito in Svezia anche se sarà molto difficile”. Pensa che la Svezia sia noiosa, ma ridendo afferma: “Sicuramente è meglio di Ar-Raqqa”. Però l’ONU non sempre è presente. Un suo amico, dice Daniel in maniera affannosa, è stato imprigionato e torturato dal Fronte al- Nusra. Quando si è presentato all’ufficio dell’UNHCR, con palesi lividi e ferite delle frustate, gli hanno detto che non potevano proteggerlo anche se rischiava la vita e che la procedura per essere espatriato sarebbe comunque durata 6 mesi.

Anche se in Turchia la situazione con gli omosessuali è migliore, non essendoci nessuna legge che lo vieti, la situazione non è proprio rosea. “Non mi sento protetto, quando vedo un poliziotto cerco di cambiare il marciapiede, ho paura. Ho visto due poliziotti mentre picchiavano due transessuali. La polizia qui è più omofobica che la popolazione stessa. Tuttavia qui ci si può rivolgere ad alcune organizzazioni e almeno ci si può esprimere. Dipende molto dalla comunità”. A Gaziantep, racconta Daniel, un suo amico è stato quasi ucciso perché aveva dei lineamenti femminili. Ma a Istanbul c’è una delle parate gay più famose al mondo. Insomma una situazione molto delicata. Daniel è seduto e rimane tranquillo. Quando alza il braccio, noto un tatuaggio sull’avambraccio. “Shalom” scritto in ebraico. “Mi piaceva la scritta, non perché appoggi la causa israeliana. Solo per questo non posso tornare in Siria. Sono forse l’unico siriano che ha un tatuaggio ebraico sul braccio”, dice sorridendo. “Ho temuto molte volte la vita, i bombardamenti erano spesso eccessivi. Ma quando l’ISIS è arrivata nel quartiere del mio ufficio, siamo scappati nel seminterrato. Un mio amico aveva una pistola e ci ha detto che se fossero entrati, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stato ucciderci tutti, per evitare di finire nelle grinfie di quei barbari e morire sgozzati o essere torturati”. Il suo amico era ignaro della sua sessualità, era omofobico e odiava palesemente i gay dicendo che tutti avrebbero dovuto morire. “Quando siamo scappati insieme in Turchia, prima di attraversare il confine, gliel’ho detto. Mi ha abbracciato e mi ha detto che andava tutto bene. È stato un momento molto toccante”. La maggior parte degli omosessuali viene scoperta attraverso il telefonino che contiene immagini e video compromettenti. Uno degli obiettivi di Daniel e di Mawaleh è proprio quello di comunicare a queste persone di togliere questo tipo di materiale. “Purtroppo non è abbastanza. Se non ti piace un ragazzo e non ti sta simpatico, ti serve semplicemente un pezzo di carta per condannarlo. Scrivendo alle autorità o ai gruppi armati che qualcuno è omosessuale, praticamente non si ha via di scampo. È pericolosissimo”.

Daniel non è però un’eccezione. Wassim vive a Gaziantep, anche lui è scappato da Aleppo per il crescente pericolo e le crescenti minacce contro gli omosessuali dei gruppi islamisti che controllano alcune zone della città. Diseredato dalla sua famiglia, è partito da casa sua lo scorso settembre senza più tornare. “Mio padre e mia madre erano disperati quando sono partito anche se non hanno mai accettato che io fossi omosessuale. Non mi hanno parlato per due anni quando l’ho detto. Anzi, mi hanno portato dal medico pensando che fosse una malattia curabile con del magnesio e del potassio e mio padre ha cercato anche di uccidermi e spesso mi picchiava”. Wassim, 25 anni, ha studiato informatica in Siria e parla un inglese perfetto. Si porta sempre con sé il suo diploma, anche quando va al lavoro. Ha paura di perdere il suo unico punto di riferimento per andarsene. “Non voglio andarmene come un rifugiato. Mi iscriverò in un’università per fare un master”. Almeno ora lavora con i media, è un designer e organizza progetti per un’azienda. È impegnato almeno 12 ore al giorno. Insomma, come la maggior parte dei siriani scappati, si è dato da fare. Ma anche in Turchia si sente discriminato. “Anche se lavoro per un’organizzazione internazionale, ci sono molti locali e loro non mi considerano”. Per scappare, anche lui ha si è spostato con una donna in auto, sua mamma. Per lui però, la situazione era molto più grave. I suoi lineamenti ariani (capelli biondi e occhi azzurri) non lo fanno nemmeno sembrare un arabo. “Ho dovuto andare al confine con mia madre. Abbiamo viaggiato fino ad Afreen, nella regione curda nel nord della Siria.

Al checkpoint dell’ISIS mi sono messo un turbante in testa e una sciarpa per coprire il viso. In più mi ero fatto cresce la barba per due settimane, per non dare nell’occhio. Quando mi hanno fatto domande, pensavano che non fossi arabo. Mia madre, una donna molto coraggiosa, mi ha salvato”. A 18 anni ha detto alla sua famiglia di essere omosessuale. Da lì la sua vita è cambiata. “Mio padre aveva grandi progetti per me”. Dopo la sua dichiarazione è rimasto solo. Anche i suoi amici lo evitavano. “Cercavo sempre di stare in silenzio per non mettere in imbarazzo nessuno. Non potevo stare né a casa né a scuola quindi andavo a studiare al parco. Tornavo giusto per dormire”. Oggi, come Daniel, in Turchia non si sente sicuro. Sembra un ragazzo con un cuore grandissimo, come Daniel. Racconta la sua storia in una maniera così pacifica, quasi avesse accettato il fatto di essere rimasto solo. L’unico suo sogno è di andare in Europa, fare un master e diventare un cantante. “La gente qui odia i siriani, figuriamoci uno di loro che in più è omosessuale”. Come molti altri omosessuali in Siria, Wassim è stato stuprato all’inizio della rivoluzione dai soldati del governo, proprio in mezzo alla strada. “Sono cose normali, può succedere”. Una frase contorta e allo stesso tempo poco promettente, soprattutto detta da una persona che più di una volta era stata vittima di abusi sessuali. “Quando avevo 12 anni sono stato abusato sessualmente per la prima volta. Il ragazzo aveva 17 anni all’epoca. Ora l’ho perdonato”. Quando gli descrivo gli atti degli islamisti contro gli omosessuali, gli si illuminano gli occhi: “Non riesco nemmeno a guardare le foto, mi viene da piangere. Come si fa a fare una cosa simile ad un essere umano?”. Come in Siria, fa attenzione a come si veste e in che modo cammina, vuole evitare di attirare qualsiasi tipo di attenzione verso di lui. “In Siria i media ci descrivono come “Shadh Ginsyy” (ovvero tradotto una persona “sessualmente irregolare”), siamo vittime di attacchi continui. Io pensavo di avere una situazione diversa.

Mio padre mi ha cresciuto con un tale affetto, per questo ho pensato che avrebbe accettato. Era un pittore e mi insegnava la calligrafia araba. Vedeva la bellezza ovunque e me la insegnava. I miei genitori erano la mia vita. Ancora oggi non posso smettere di amarli".

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