I “grandi della terra” si sono dati appuntamento al G20 di Antalya, in Turchia. In un clima surreale, ad appena due giorni dagli attentati di Parigi, è andato in scena il grande incontro tra i capi di Stato e di governo dei venti Paesi più industrializzati del pianeta. Un’occasione per fare il punto sulle numerose problematiche internazionali, dall’economia al clima, ma che, alla luce di quanto accaduto a Parigi, è stato monopolizzato dalla questione sicurezza.
Un festival dell’ipocrisia più che un summit risolutivo. “Dal G20 arriverà un messaggio forte contro l’Isis”, ha dichiarato Erdogan in apertura del meeting. Il presidente turco ha poi continuato sostenendo la necessità dell’unità contro il terrorismo per colpirne gli asset finanziari. Peccato però che nel corso degli ultimi quattro anni e mezzo, cioè da quando la Siria è il centro di una guerra spaventosa, molti Paesi, Turchia in testa, hanno alimentato il rifornimento finanziario, economico, ma anche militare, logistico, politico e di personale dello Stato Islamico. Nell’immaginario collettivo di chi ha seguito l’evoluzione del conflitto con la lente d’ingrandimento ritornano in mente quelle immagini dei blindati turchi che fissano da lontano Kobane mentre i tagliagole dell’Isis assediano la città curda, oppure il video, che è costato la prigione al direttore del quotidiano Cumhuriyet, nel quale si vedono i camion, con i lasciapassare firmati dal governo, carichi di armi destinate ai gruppi fondamentalisti in Siria. Come ritornano in mente quelle dichiarazioni di Ahmet Davutoglu, braccio destro del presidente Tayyip Erdogan, che alla vigilia delle elezioni, dopo l’attentato di Ankara con oltre 100 morti, definì il Califfato “ingrato e traditore”. Un’ammissione di colpa prima ancora di essere una gaffe.
Ma in realtà, affermazioni contro l’Isis a parte, Erdogan si è rivelato per quello è: un avversario di Bashar Al Assad e del mondo che lo circonda, in particolare l’Iran sciita. “L’attuale presidente siriano, che ha massacrato il suo popolo, non ha un posto nel futuro della Siria né lo avrà mai” ha spiegato nella conferenza stampa di chiusura del summit del G20 di Antalya. Il leader turco ha sempre avuto chiaro come obiettivo quello di far cadere il leader alawita e di penetrare militarmente ed economicamente in un’area che va dall’irachena Mosul alla siriana Aleppo (parte nord dello Stato Islamico). Qualche giorno fa infatti il quotidiano Yeni Safak, giornale filogovernativo starebbe preparando il dispiegamento di 10mila 700 truppe in Siria (46 chilometri in territorio) entro la metà di dicembre per creare “aree sicure”. Più che “proteggere i siriani di etnia turca” questa strategia mira infatti ad anticipare una possibile espansione delle forze curdo-siriane del partito dell’Unione Democratica (PYD), che vorrebbero appunto costituire un regione indipendente ai confini del Kurdistan turco. Fin dall’inizio l’avanzata dei miliziani dell’Isis rientrava infatti nei piani del governo di Ankara perché andava a svolgere il lavoro sporco per conto dei suoi interesse.
Ora dopo quattro anni, solo quando l’Isis arretra per via dell’intervento militare russo, Erdogan dichiara guerra al terrorismo. Speriamo almeno che questa volta i raid colpiscano gli obiettivi giusti. Ad oggi l’attuale media dell’aviazione è questa: un paio sul Califfato e 300 sui curdi del Pkk o siriani.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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