Herat, nel carcere delle donne ricostruito dagli italiani

Una detenuta su tre è in cella per avere ucciso il marito, moltissime per adulterio

Un uomo della sicurezza afgana impegnato in un'operazione anti-droga
Un uomo della sicurezza afgana impegnato in un'operazione anti-droga

Herat - Altro che femminicidio, in Afghanistan il problema se mai è lo "uominicidio", visto l'elevato numero di donne che ammazzano il marito. Tanto che, nel moderno carcere femminile di Herat, oltre un terzo delle detenute sta scontando pene anche severe per aver eliminato il coniuge. Spesso infatti il maschio si comporta come un padre padrone, maltratta donne e bambini, portando all'esasperazione e alla reazione estrema la moglie. Causa matrimoni obbligati che portano, con altrettanta frequenza, a tradimenti, qui puniti con anni di carcere. Facendo diventare l'adulterio la prima causa di arresto, condanna e relativa detenzione.

In Herat infatti, tra le numerose realizzazioni delle Forze armate italiane, scuole, fogne, ospedali, c'è stata anche la ricostruzione dell'ala femminile del carcere, ricavata all'interno della casa di reclusione maschile. Passata l'emergenza, il governatorato ha trasferito le donne in una struttura a se stante, dove attualmente sono detenute 141 donne.

Circa la metà e' finita in cella per adulterio, come spiega il colonnello Sima Pazman, donna minuta ma dallo sguardo determinato, che dirige carceri femminili ormai da 28 anni. Un reato molto grave punito con pene che oscillano da 1 a 5 anni. Altro che la "Dama bianca" di Fausto Coppi, che negli anni '50, quand'anche in Italia l'adulterio era reato, se la cavò con pochi giorni in guardina e una condanna a pochi mesi, coperti dalla condizionale. Diretta conseguenza dei matrimoni combinati dalle famiglie, spesso di bambine con uomini molto anziani. Unioni chiaramente senza amore, da cui relazioni extraconiugali se non vere e proprie fughe. E la legge non perdona: arresto, processo, condanna, carcere.

Sempre, dopo matrimoni obbligati nascono tensioni ancor più insanabili, con mariti ottusi e crudeli che portano la donna all'esasperazione e alle estreme conseguenze. Nella struttura diretta da Pazman sono finite quasi 50 donne, con pene variabili dai 10 ai 20 anni, che hanno ucciso il proprio coniuge.

Anche qui, come in Italia, i figli seguono la madre, almeno fino al compimento del secondo anno di vita. Poi, pur continuando a dormire in carcere, passano la giornata in asili nido e scuole materne. Infine, a sei anni vengono accolti in appositi collegi dove studiano fino a 13 anni.

Le detenute sono diverse per tipologie di reato, e rinchiuse in celle da 4 a 6 posti, che lasciano comunque al mattino per lavorare, cucire abiti, tappeti, o per seguire corsi di informatica o di lingue, per aiutarle a trovare un lavoro una volta

scontata la condanna. Una finestra di modernità in un Paese ancora ancorato a logiche tribali e semifeudali, ma alla disperata ricerca di una modernità, grazie anche agli aiuti internazionali, in particolare quelli italiani.

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