Scoprirsi il capo, in Iran, è un rischio troppo grande. Ma silenziare le donne che chiedono libertà e diritti non è cosa facile. Lo dimostrano le proteste e le campagne di sensibilizzazione con cui le attiviste anti-hijab sfidano la repressione. Una repressione dura. Lo sa bene la ventenne Saba Kord Afshari, finita alla sbarra per essersi tolta il velo durante le proteste di piazza del "mercoledì bianco" a Teheran.
Quel gesto pacifico potrebbe costarle ventiquattro anni di carcere. La sentenza è già stata emessa. Il suo avvocato, Hosein Taj, ha spiegato a La Repubblica che tenterà la carta dell’appello, ma la strada è in salita. Le accuse contro l'attivista, attualmente reclusa nel carcere di Evin, a Teheran, sono pesanti. Sono le stesse mosse contro donne e uomini che prima di lei hanno osato sfidare i dettami coranici. Solo nel 2018, stando ai dati diffusi dal Centro per i diritti umani in Iran (CHRI), sono state almeno dodici le persone condannate per aver manifestato contro l'obbligatorietà del velo. "Queste sentenze – commenta il direttore esecutivo di CHRI Hadi Ghaemi – riflettono l'incapacità delle forze statali di imporre la loro volontà".
Per scoraggiare il dissenso, la giustizia iraniana usa il pugno duro. Saba Kord Afshari, ad esempio, è stata accusata di "crimini contro la sicurezza nazionale" e "istigazione alla prostituzione". Sono questi i capi di imputazione a cui vanno incontro gli attivisti anti-hijab. Eppure gli sforzi profusi dalle autorità iraniane per reprimere il fenomeno sembra non stiano andando nella direzione sperata. Come sottolinea Ghaemi, infatti, "sempre più donne si rifiutano di conformarsi ai dettami statali sull'abbigliamento".
Un orientamento già rilevato dagli studi condotti nel 2006 e 2014 dall'Iranian Students Polling Association, che hanno evidenziato come il 49 per cento della popolazione iraniana sia favorevole all'utilizzo facoltativo dell'hijab.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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