La logica del win-win, il comune vantaggio, caratterizza tradizionalmente l’approccio cinese alla collaborazione con i partner esteri. In una dimensione internazionale in movimento (ad esempio per le guerre commerciali), il quesito è come l’Italia possa collaborare con la Cina in maniera avveduta e utile, una Cina che vive una fase di riforme, celebra l’era di Xi Jinping, esprime una maggiore assertività all’esterno. In che modo possiamo beneficiare delle possibilità che la Cina offre in termini di scambio economico? Ecco il resoconto del dialogo di Cinitalia con Michele Geraci, l’economista che nel Governo Conte siede nella posizione di sottosegretario allo Sviluppo Economico e che la Cina non la conosce dai testi ma per dieci anni vissuti nel Paese a partire dal 2008. Come si chiama il blog personale di Geraci? China economy and society, economia e società viste nella prospettiva di ciò che l’Italia deve fare per poter collaborare pienamente con il gigante asiatico. E da qui siamo partiti nella nostra conversazione.
MICHELE GERACI: "Per prima cosa occorre studiare, comprendere, analizzare la Cina in modo obiettivo, senza alcuno dei preconcetti che potevano esserci in passato, sfatando certi miti. È anche questo uno degli obiettivi della Task Force Cina, che abbiamo recentemente istituito al Ministero dello Sviluppo Economico. Serve uno studio attento, fattuale, su quello che la Cina sta realizzando, perché credo che la si conosca poco. Forse non la si è voluta conoscere o forse non ci si riusciva, perché è un Paese ostico da comprendere per vari motivi tra cui, non ultimo, la lingua. Siamo di fronte ad una situazione unica al mondo: un Paese, oggi il più importante, che parla cinese, mentre nel resto del mondo non ci sono abbastanza persone in grado di tradurre ogni giorno tutto quello che la Cina veicola. Questa è un’impossibilità materiale di capire. In Cina un miliardo e trecento milioni di persone ogni giorno postano, scrivono, commentano: solo una piccolissima porzione di tutto questo può arrivare a noi e questo è un limite, una legge della fisica, che già ci pone in una situazione ardua. Ma questo che cosa significa? Che bisogna moltiplicare lo sforzo da dedicare allo studio e alla comprensione della Cina, del suo sviluppo sociale e storico, senza pregiudizi, in modo obiettivo, senza star lì a considerare quanto sia “diverso” il suo sistema politico: dico sempre che possiamo imparare da Beijing tante cose e adattarle a noi nei modi giusti. Quindi il nostro primo compito da osservatori e adesso funzionari del governo è quello di analizzare e conoscere"
Il secondo compito?
"La Cina offre sfide e opportunità. Quindi, la Task Force Cina mira alla comprensione di questi due assi fondamentali, in modo che ci si prepari, sì, a fronteggiare le sfide, per non trovarsi impreparati - come è stato in passato - ma, cosa ancor più grave, non si rimanga impreparati a cogliere le opportunità. Perché tra le due, sfide e opportunità, secondo me le opportunità sono il valore più importante. Quando lavoravo nel mondo finanziario, notavo che le perdite maggiori
in borsa si soffrono non perché si comprano le azioni che vanno giù, ma perché non si comprano le azioni che vanno su! Perché non si coglie l’upside infinito, quando le azioni triplicano, quadruplicano... il downside invece è sempre limitato al 100 per cento: più di quello che hai investito non puoi perdere. La perdita maggiore nell’analisi di portfolio risiede proprio nelle opportunità di crescita non colte, i cosiddetti treni che passano... Dunque, da un punto di vista direi matematico, è su quello che bisogna spingere. Perciò, le mie due linee guida fondamentali, che sono quindi quelle della
Task Force Cina sono: conoscenza per comprendere sfide ed opportunità, e maggiore attenzione alle opportunità"
Andiamo ora alle opportunità.
"Sottolineo un aspetto di tattica. L’Italia dovrebbe sentirsi più libera rispetto agli altri 27 paesi europei. La Cina preferisce la relazione bilaterale e non ha i nostri tempi allungati, quindi bisogna prendere l’iniziativa. Quando dico sganciarsi, non intendo dire, ci mancherebbe!, sganciarsi dall’Europa, ma prendere l’iniziativa e andare avanti, farci apprezzare dalla Cina come il Paese che ha intenzione di giocare questo ruolo avanzato - come fanno del resto anche altri Paesi, Francia e Spagna, e anche Paesi più piccoli. Questo approccio proattivo forse è mancato in passato, per motivi di scarsa conoscenza o fors’anche per motivi ideologici. Dobbiamo ora metterci in prima fila in Europa e, semmai guidare l’Europa; non sganciarci, ma guidare l’Europa. Per giocare questo ruolo chiave noi quali asset abbiamo? Un settore manifatturiero e agroalimentare di qualità, know-how tecnologico, un patrimonio artistico e culturale unico e una posizione geografica strategica. Come dicevo, dalla Cina possiamo imparare, ad esempio, come viaggiare con un aumento di Pil al 9,5% per tanti anni, governando oltre un miliardo e trecento milioni di persone; come sradicare 800 milioni di persone dalla povertà; come far crescere il reddito, che è passato da 130 dollari a 13000 per i cittadini rurali, e da 340 dollari a 36000 per gli altri (quindi un tenore di vita che è aumentato per tutti di 100 volte); come controllare la
migrazione domestica, che riguarda 15-20 milioni di persone all’anno, senza creare grandissimi turbamenti sociali. Pur con i limiti che anche il sistema cinese manifesta, qualcosina la possiamo pure apprendere... non ultimo quello che la
Cina sta facendo sul China Manufacturing 2025. Penso che il governo passato abbia ritenuto che il nostro piano Industria 4.0 sia la stessa cosa del China Manufacturing 2025, prendendo una cantonata clamorosa, perché - almeno per come la vedo io - Industria 4.0 esprime dei semplici incentivi - i soliti incentivi alla defiscalizzazione. Facendo un po’ l’analista finanziario, direi che sono cose che attaccano la linea sotto l’EBTDA, il margine operativo lordo, mentre invece bisogna attaccare i ricavi. Il piano China Manufacturing 2025 è tutt’altro; quindi dobbiamo comprendere che cosa c’è scritto in questo piano: sono 500 pagine in cinese, equivalenti a 5000 in italiano - perché la lingua cinese è più breve - e ovviamente esiste solo in cinese... Ogni anno il piano viene aggiornato e bisogna andare a studiare e capire che cosa fanno e, sempre su quei due assi, quali sono le sfide e le opportunità che l’Italia può cogliere"
Questo è un po’ il quadro generale. Ora possiamo entrare nel merito della nuova Via della Seta.
"Il Mediterraneo può essere il terminale della Via della Seta. Questo significa che dobbiamo giocare la parte del terminale,
quindi: realizzare infrastrutture e porti, cercare di capire che tipo di partenariato possiamo avere, e non solo. Come dicevo durante la mia visita in Caucaso, dobbiamo anche aiutare la Cina a far sì che la Via della Seta sia un successo lungo il percorso, dunque lungo la sua porzione nell’Asia centrale, altrimenti noi saremmo il terminale del nulla. Non dobbiamo solo ripetere a noi stessi “siamo il terminale”, dobbiamo anche collaborare, e, dov’è possibile, far sì che questa Via sia di successo nei paesi intermedi che attraversa. Ciò significa via di terra, via di mare sud, ma anche via artica, dove c’è questa nuova terza Via della Seta. Quindi c’è da fare tantissimo, ce n’è per tanti anni di questo governo!"
La sua consapevolezza è condivisa dagli altri membri del governo?
"La risposta è semplice: ovviamente sì, altrimenti non sarei qui. È una risposta ex post: se non ci fosse stato un interesse verso la Cina da parte del governo attuale e delle due forze politiche che governano il Paese, probabilmente non sarei stato chiamato; la mia presenza nell’esecutivo è la maggiore testimonianza che l’interesse c’è. Vorrei ribadire che l’Italia deve prendere iniziativa verso l’Europa. Devo dare merito alle due forze politiche, 5 Stelle e Lega, che anche su questo tema - grazie anche alla collaborazione negli anni precedenti con Matteo Salvini e con Beppe Grillo - siamo più avanzati
rispetto agli altri 27 paesi. Abbiamo già preso l’iniziativa: la mia presenza qui è un segnale forte al mondo cinese. Non è per caso"
Le sue priorità nell’azione di Governo?
"Commercio e attrazione investimenti: sono queste le mie due responsabilità. Quindi la risposta è semplice: innanzitutto esistono offerte di investimento cinese che sono in stato avanzato, vorrei che si concludessero ed anche al più presto. Per il commercio, a breve metteremo in campo delle iniziative che possono aiutare sia il Made in Italy che le nostre piccole imprese che non hanno la forza o la scala per arrivare in Cina, per cercare di aiutarle ad aggredire questo mercato. Questa secondo me è una delle piccole cose “facili” da cambiare e che spero abbia un impatto reale per centinaia di migliaia di imprese"
L’Italia, lei diceva, può guidare l’Europa ad un nuovo approccio con la Cina. Su quale tema in particolare il Governo italiano dovrebbe far leva? Considerando l’attitudine cinese all’approccio bilaterale, su che cosa dovrebbe puntare l’Italia per aggregare consensi in Europa nel rapporto con la Cina?
"Noi in Europa dobbiamo essere i primi a cogliere le opportunità, e questo ruolo guida deve essere assunto senza reclamizzarlo troppo ad alta voce. Quello che ho visto durante dieci anni di vita in Cina è che la Cina ha un approccio bilaterale e chi fa il passo più avanti sta in prima fila in questo bilaterale. Per la Cina l’Unione Europea è una grande opportunità, perché garantisce 28 porte di accesso, delle quali scegliere giustamente quella più comoda per certe tipologie di attività, di prodotti e così via. È così che l’Ungheria (e non è un caso) è diventata la prima porta di accesso della Cina in Europa: è il Paese dove la Cina ha investito di più in greenfield, in proporzione al totale degli investimenti nel Paese. L’Italia è un Paese in cui la Cina ha investito tantissimo, 25 miliardi in 10 anni, ma a parte delle ottime eccezioni, ad esempio Huawei e altre società, si è trattato di investimenti in M&A, fusioni e acquisizioni, e non di greenfield. E dunque? Bisogna far sì che questo flusso di risorse e questo grande interesse che c’è da parte della Cina verso l’Italia, sia invece riconvertito in più operazioni di greenfield, e ciò significherebbe più capitale e non solo scambio di azionariato, e più creazione di posti di lavoro, perché occorre aumentare la produttività. Lo scambio di azioni non crea PIL, è uno scambio di seconda mano. Dunque 25 miliardi di investimento vanno bene, perché sono benvenuti in molti casi, ma l’impatto sul PIL è stato davvero basso. Al contrario, i nostri esigui investimenti italiani in Cina, per centinaia di milioni di euro, hanno creato tra 50mila e 60mila posti di lavoro in Cina - contro i 2000/2500 che la Cina ha creato in Italia, a
fronte di un investimento 20 volte superiore.
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