Vertice di Roma, quattro giorni fa: tutte le principali potenze – Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna – e con loro i soggetti maggiormente coinvolti nella crisi che, ogni giorno di più devasta la Libia del dopo Gheddafi – dalla Turchia all’Egitto, dalle monarchie del Golfo all’Unione Araba e a quella Africana – sembrano aver trovato finalmente un accordo sulla necessità di contrastare l’avanzata delle milizie dello Stato Islamico. Milizie che da Sirte, dove secondo alcune fonti si troverebbe lo stesso Al Baghdadi, puntano sempre più decisamente su Derna, cercando di riconquistare la città dalla quale sono state espulse da una variegata coalizione che vede, in prima fila, la “Brigata 166” e le forze di Ansar al Sharia – legate ad Al Qaeda. E potrebbe certo apparire strano che le Cancellerie occidentali pensino di correre in soccorso di forze – coordinate dal Majilis Shura al Mujiaeddhin, il “Consiglio dei combattenti della fede”, che in buona parte si richiamano al “magistero” di Osama bin Laden e che rispondono al suo erede Al Zawahiri; tuttavia, in questo momento, non si può (forse) guardare troppo per il sottile, visto che la necessità principale è fermare le forze del Califfato, che, se riconquistassero Derna non solo farebbero un notevole passo avanti per il controllo di tutto il territorio libico, ma soprattutto diverrebbero una minaccia sempre più seria proiettata sul Mediterraneo. E, non dimentichiamolo, a ben poca distanza dalle nostre coste. Tuttavia sull’accordo di massima trovato a Roma grava l’incognita rappresentata dalle profonde fratture che permangono tra i due “governi” che rivendicano il titolo di legittimità sulla Libia: quello di Tobruk, riconosciuto dalla maggioranza delle potenze e, di fatto, egemonizzato dal generale Haftar; e quello di Tripoli, espressione dei Fratelli Musulmani, che trova numerosi sostegni nel mondo arabo e in Turchia. Il contrasto tra questi due schieramenti ha, di fatto, reso sino ad oggi impossibile pacificare la Libia ed ha finito con il favorire l’avanzata delle milizie jihadiste, che approfittano di una situazione di sostanziale anarchia. Una situazione tale da aver reso concretamente impossibile qualsiasi intervento internazionale, pur sotto le insegne dell’ONU. Infatti, come ha sottolineato in una recente intervista rilasciata a “Il Nodo di Gordio” Edward Luttwak, il problema è che in Libia risulta ben difficile individuare una forza, uno schieramento, o anche solo un “uomo forte” che possa fornire sufficienti garanzie e sul quale puntare. Con il rischio di andare ad impelagarsi in una situazione simile, o addirittura peggiore, a quella della Somalia. Tuttavia la situazione appare oggi talmente gravida di minacce da rendere sempre più urgente un intervento. Ed è questa una posizione che sembra, incredibilmente, aver accomunato tutti i presenti al Vertice di Roma, dal Segretario di Stato John Kerry al Ministro degli Esteri russo Lavrov. E, per altro, sembra che la diplomazia internazionale, e quella del Palazzo di Vetro, stiano cercando di forzare Tobruk e Tripoli ad un accordo reale. E questo nonostante notevoli resistenze, soprattutto a Tripoli dove notizie recenti riferiscono di scontri armati nella stessa capitale. A Roma, comunque, è risultata evidente la necessità che l’Italia assuma un ruolo di primo piano o addirittura di guida nella, ormai sempre più concreta, eventualità di un intervento internazionale in Libia. E questo per alcune ottime ragioni, che vedono, naturalmente, sullo sfondo l’antico legame storico fra i due paesi. In primo luogo l’eccellente conoscenza, da parte della nostra Intelligence, del territorio e della complessa struttura tribale della società libica, conditio sine qua non per poter operare. In seconda istanza la profonda competenza strategico operativa dei nostri vertici militari, in particolare di alcune figure, come il Generale degli Alpini Paolo Serra, da Novembre scorso consigliere per la sicurezza del negoziatore ONU in Libia Martin Kobler e, soprattutto, l’attuale Capo di Stato Maggiore della nostra Marina Militare, Giuseppe de Giorgi, che già nel 2006 riuscì ad imporre, contro il parere dei francesi, la Flotta italiana come forza operativa del blocco navale, richiesta dalle Nazioni Unite, per impedire il traffico d’armi tra la Siria ed Hezbollah libanese; blocco che permise, per converso, il ritiro delle forze israeliane che impedivano aiuti umanitari al Libano. Operazione che ha permesso al Libano di riacquisire il controllo delle sue acque territoriali ed al contempo ad Israele di avere garanzie contro il rifornimento di armi ai suoi storici nemici. E per come l’operazione venne condotta, De Giorgi ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali. Sempre in Libano, lo stesso attuale Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate Gen. Claudio Graziano ha a lungo comandato la missione ONU. E l’esperienza maturata dai nostri quadri militari nella regione rappresenta un patrimonio che non dovrebbe andare sprecato.
D’altro canto è evidente che un intervento su Derna debba configurarsi essenzialmente come un’operazione di forze aereo-navali, coordinate in appoggio delle milizie della “Brigata 166” – quella che fornisce maggiori garanzie di combattività e affidabilità – e che potrebbe prevedere anche l’invio sul terreno di reparti dei nostri marò del Battaglione San Marco, con il ruolo di istruttori e di consiglieri militari.Andrea Marcigliano
Senior fellow del think tank “Il Nodo di Gordio”
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