La minaccia delle bandiere nere è ben più vicina della Libia. Nell'ex Jugoslavia, alle porte di casa, monta l'estremismo islamico. Un'inchiesta de il Giornale ha scoperto che in Bosnia sventolano gli stessi vessilli dei miliziani di Al Qaida che combattono in Siria. Dal Kosovo partono centinaia di volontari per la guerra santa e qualcuno è legato all'Italia. In Macedonia tornano a spuntare le armi degli indipendentisti albanesi e da Tirana è stato organizzato il viaggio di Maria Giulia Sergio, la convertita che ha raggiunto lo Stato islamico. La deriva integralista della prima jihadista italiana è incredibilmente iniziata con un viaggio in Slovenia.
BOSNIA
Due giovani con il barbone islamico d'ordinanza e mimetica, in un'auto nera senza targa ci superano sgommando appena capiscono che siamo forestieri. Sperduti fra boschi e colline non sono pochi i villaggi roccaforte dei salafiti, come Osve nella Bosnia centrale, dove sembra di vivere in un emirato talebano con le donne che vanno in giro coperte dalla testa ai piedi. E fra le povere case, una volta serbe, che portano ancora i segni della feroce guerra etnica degli anni Novanta, sventola la bandiera nera. «È solo la professione di fede dell'islam», sostengono i barbuti, ma il vessillo ricorda da vicino le bandiere di Al Nusra, la costola di Al Qaida dei ribelli siriani.
A Osve si arriva lungo una strada sterrata neppure segnata sulla mappa, ma dal paese dimenticato fra i monti sono partiti almeno una ventina di giovani volontari della guerra santa. Uno di loro, Emrah Fojnica, la scorsa estate si è fatto saltare in aria in Irak. Nell'ex repubblica jugoslava si calcola che siano almeno 3mila gli estremisti islamici.
La Bosnia Erzegovina è solo un tassello della Jihad balcanica, che unisce Kosovo, Albania e posti tranquilli come la Slovenia attraverso un filo conduttore di proselitismo estremista, indottrinamento e arruolamento per i fronti di guerra. Una miscela esplosiva, che ogni tanto sfocia in attacchi eclatanti, a pochi chilometri da casa nostra, al grido di «Allah o akbar». Il 27 aprile, Nerdin Ibric, 24 anni, ha lanciato un attacco suicida contro il commissariato di Zvornik nella zona serba della Bosnia. Estremista wahabita, pesantemente armato, con munizioni in abbondanza e giubbotto antiproiettile è riuscito ad ammazzare un poliziotto ferendone altre due prima di venir eliminato. Il padre dell'attentatore era stato ucciso dai paramilitari serbi nel 1992 quando Ibric aveva un anno. Nelle ore successive hanno arrestato un suo complice, Avdulah Hasanovic, che ha combattuto in Siria sotto le bandiere nere dello Stato islamico. La Sipa, l'antiterrorismo bosniaco, l'aveva già fermato lo scorso settembre durante l'operazione «Damasco», ma poi l'ha rilasciato in attesa dell'inchiesta. Hasanovic era un frequentatore dei sermoni di Hussein Bosnic, detto Bilal, il predicatore sotto processo a Sarajevo per aver arruolato giovani per la Siria non solo in Bosnia, ma anche in Italia e in altri Paesi europei.
KOSOVO
«Se in Ucraina vanno a combattere serbi e croati, i musulmani hanno lo stesso diritto di proteggere la loro gente e le nostre terre in Siria», sostiene uno dei barbuti di Restelica, un villaggio kosovaro di 10mila anime, incassato in mezzo ai monti fra Albania e Macedonia, dove tutti parlano italiano. Un terzo del paese vive e lavora da noi. Secondo l'intelligence italiana, Restelica e Gornja Maoca, in Bosnia, dove hanno sventolato agli inizi di febbraio le bandiere del Califfato, sono i gangli di «un network per il reclutamento di combattenti per la Siria coinvolgendo connazionali stanziati in Europa occidentale», compresa l'Italia.
Nella lista dei 22 Stati europei, oltre agli Stati Uniti e la Russia da dove sono partiti volontari per la guerra santa, il minuscolo Kosovo si trova all'ottavo posto. I casi accertati a gennaio erano 232, in pratica 125 jihadisti ogni milione di abitanti. Il tasso più alto rispetto alla popolazione seguito dalla Bosnia con 160-300 volontari in tutto, il Belgio che ne conta 42 e l'Albania.
Il leader integralista di Restelica è l'imam Sead Bajraktar, che vive in provincia di Siena dove ha fondato un centro islamico a Monteroni d'Arbia. Secondo i servizi segreti, torna spesso in Kosovo «per rilanciare il proprio impegno ideologico militante e partecipare ad attività addestrative di tipo militare».
Il maggiore Fatos Makolli, che comanda l'antiterrorismo di Pristina, colloca personaggi legati all'Italia come Bajraktar, nella «categoria degli imam che propugnano un islam radicale e fanno il lavaggio del cervello ai giovani». E segnala un altro predicatore finito sotto inchiesta, Idriz Billibani, arrestato la prima volta nel 2010, «che potrebbe essere collegato a una rete italo-kosovara di radicalizzazione e reclutamento». Un video del 2012 riprende Billibani e Bosnic, l'imam bosniaco dietro le sbarre a Sarajevo, ospiti al Centro islamico Restelica vicino a Siena. Il titolo del video non lascia dubbi: «Con chi stai?».
ALBANIA
Fino allo scorso anno almeno 500 mujaheddin dei 3mila europei che combattevano per il Califfato erano arrivati dai Balcani. Da Germenji, un piccolo paese albanese a sud di Tirana, è iniziata la deriva islamica di Aldo Kobuzi. L'aspirante mujahed è partito per la Siria nell'autunno scorso da una frazione di Scansano, in provincia di Grosseto. Non da solo: con lui ha portato la moglie di 27 anni, Fatima Az Zahra, che prima di convertirsi all'islam si chiamava Maria Giulia Sergio, nata a Napoli. Oggi vive a Raqqa, la «capitale» del Califfato in Siria.
La lady Jihad italiana si è arruolata nello Stato islamico grazie alla filiera «familiare» del Paese delle aquile. La prima a raggiungere la Siria è stata la cognata Seriola, ancora minorenne, che si è sposata con Mariglen Dervishllari, un albanese partito nel 2013. I biglietti aerei di Dervishllari e di altri mujaheddin erano stati pagati dall'imam Bucar Hysa in carcere a Tirana dal marzo 2014 assieme a Genci Balla, un altro reclutatore. In una telefonata intercettata dalla Siria fra Dervishllari e Hysa, suo mentore, il combattente jihadista dice: «Ti sto mandando mio cognato. Gli ho dato il tuo numero di cellulare». Il cognato è Aldo Kobuzi futuro marito della prima jihadista italiana. Sulla sua pagina Facebook la copertina è il simbolo nero dell'Isis.
SLOVENIA
La radicalizzazione della jihadista Maria Giulia è iniziata in Slovenia. La stessa Sergio aveva ammesso, prima di partire per la Siria, di essere rimasta estasiata nella vicina repubblica dalle «munakabattan», un gruppo di donne che si coprono con il velo dalla testa ai piedi. «È partita con una sua amica musulmana, slovena, di Milano», racconta a il Giornale chi ha conosciuto bene Maria Giulia. A Lubiana la futura lady Jihad frequenta un centro islamico, come conferma Jasmina Puskar, che l'ha incontrata, ma non fornisce ulteriori informazioni. Probabilmente si tratta dell'Associazione per la promozione della cultura islamica in Slovenia, El Iman, che teneva corsi domenicali di Corano per le donne. La Sova, i servizi segreti di Lubiana, l'aveva segnalata nel 2012 come organizzazione radicale. Non a caso nella sede dell'associazione, un anno prima, era stato invitato per un sermone inaugurale Bilal Bosnic, l'imam della guerra santa detenuto a Sarajevo. El Iman, che avrebbe sospeso le attività, era collegata al noto islamico sloveno Alim Hasanagic attraverso il sito La Verità-Al Haq . Curioso. Anche sua moglie, Enisa Ummu Safiljia, avrebbe aderito nel 2011 all'appello internazionale pro velo lanciato proprio da Maria Giulia Sergio, alias Fatima. La coppia di islamici sloveni sostiene di non aver mai conosciuto l'italiana partita per la Siria.
Però la filiera jihadista che collega Slovenia, Italia e Bosnia emerge da un'inchiesta della procura di Venezia su Ismar Mesinovic e Munifer Karamaleski, due balcanici che vivevano in provincia di Belluno e hanno aderito al Califfato in Siria. Il primo è stato ucciso, ma il secondo combatte ancora. In vista della loro partenza, Zavbi Rok, uno sloveno reduce dalla Siria, era andato a trovarli in Italia nel novembre 2013 portando una pistola cromata per venderla «al gruppo italiano». Non solo: lo sloveno voleva sposare la sorella di Karamaleski, che si è rifiutata temendo di venire portata in Siria. Rok, nome di battaglia Ammar, era stato presentato in Bosnia a Mesinovic, uno dei mujaheddin di Belluno, dal solito Bosnic, l'imam della guerra santa.
MACEDONIA
Gli spettri del conflitto con la minoranza albanese stanno riapparendo in Macedonia, la repubblica più meridionale dell'ex Jugoslavia. Il 9 maggio è scoppiata una battaglia nella città di Kumanovo con 14 miliziani morti, 8 poliziotti uccisi e una quarantina di feriti. Le vittime albanesi indossavano mimetiche con il vecchio simbolo dell'Uck, l'Esercito di liberazione del Kosovo. Le forze speciali macedoni hanno usato il pugno di ferro aumentando i timori per la stabilità della piccola repubblica sconvolta da manifestazioni di piazza, accuse reciproche fra i politici di corruzione e altri reati nel contesto di una pesante crisi economica. L'islam radicale cerca di strumentalizzare i profondi attriti fra albanesi musulmani e macedoni di fede ortodossa. Nel 2001 una rivolta armata nella zona di Tetovo era stata repressa a cannonate. Alle ultime manifestazioni di protesta nella capitale, Skopje, sono apparsi i vessilli neri o verdi con la shahada, la professione di fede islamica, simbolo delle frange salafite, che sventolano anche in Siria. Il 12 giugno alcuni jihadisti del Califfato, che mostravano i passaporti macedoni, hanno pubblicato un video su YouTube. Munifer Karamaleski ed Elmir Avmedoski sono due macedoni partiti dall'Italia per arruolarsi nello Stato islamico.
Giovanni Giacalone, analista del radicalismo nei Balcani, non ha dubbi: «Nella zona nord occidentale della Macedonia sono concentrate diverse roccheforti salafite e la vicinanza con il Kosovo e il Sangiaccato serbo, altre zone ad alta presenza radicale islamista, non fanno che rendere l'area e la crisi di Skopje esplosiva».Sostieni il reportage sulla minaccia islamista in Europa
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