Non solo abiti: l'arte nella moda è diventata un vero affare

«La moda non è arte, deve morire e morire presto perché viva il commercio» diceva Coco Chanel nella prima metà degli anni Trenta, quando il successo di Elsa Schiaparelli con il suo artistico entourage di grandi del surrealismo (da Man Ray a Marcel Duchamp, da Baron de Meyer a Francis Picabia) cominciò a picchiarle seriamente sui nervi. All'epoca, per altro, la commistione tra arte e moda era guardata con grande sospetto anche da chi non aveva problemi di rivalità professionale. E in ogni caso produceva pochissimo business. Oggi è tutto il contrario: qualunque tipo d'investimento artistico diventa estremamente redditizio sotto il profilo dell'immagine oltre a essere un'inesauribile fonte d'ispirazione. Esemplare in questo senso la storia della Fondazione Prada nata dalla grande passione dei coniugi Bertelli per l'arte contemporanea e diventata nel corso del tempo una voce attiva nel bilancio dell'azienda, ovvero qualcosa che gli analisti finanziari definiscono «centro di profitto» anche se costa molti soldi e non produce guadagni materiali. In buona sostanza Miuccia e Patrizio Bertelli hanno ottenuto l'impagabile libertà di sembrare geniali anche quando si limitano a fare molto bene il loro lavoro.
Del resto un conto è collezionare opere d'arte e frequentare artisti e critici di fama internazionale. Un altro è organizzare mostre, offrire a Venezia uno spazio espositivo come Ca Corner e a Milano un nuovo museo permanente per di più progettato da un archi-star come Rem Koolhaas negli ex spazi industriali di Largo Inarco 2. Altrettanto encomiabili le iniziative della Fondazione Trussardi, nata nel 1996 e successivamente trasformata da Beatrice Trussardi in un'intelligente mezzo di riqualificazione culturale di Milano. Scopo principale della fondazione è infatti portare l'arte contemporanea direttamente nella città, negli spazi pubblici solitamente adibiti a tutt'altro tipo la Caserma XXIV maggio di via Vincenzo Monti, il cinema Manzoni oppure i vecchi magazzini della Stazione di Porta Genova. Molto più banale l'operazione degli stilisti che sui vestiti mettono riproduzioni artistiche ad alto tasso di riconoscibilità in omaggio alla teoria di Oscar Wilde: «O si è un'opera d'arte o la s'indossa». Prima o poi l'hanno fatto tutti a cominciare dal grande Yves Saint Laurent con il suo celeberrimo abito Mondrian creato nel 1965 sull'inconfondibile rigore geometrico dei quadri di Piet Mondrian. In tempi più recenti Pierpaolo Piccioli e Maria Grazia Chiuri, talentuosi direttori artistici di Valentino, hanno celebrato una sorta di sinestesia (ovvero la fusione di tutte le arti) mettendo in un unico magnifico vestito d'alta moda il quadro più bello di Lucas Cranach il Vecchio (Adamo ed Eva, olio su tavola del 1526 conservato agli Uffizi) e gli arazzi fiamminghi del castello di Wavel. Come se questo non bastasse la collezione era ispirata da una folgorante visita dei due al teatro dell'Opera di Roma, un mondo di cui sapevano ben poco e che hanno cominciato a maneggiare con un simpatico atteggiamento naif nella collezione di prét à porter presentata lo scorso settembre a Parigi.
Insomma un gran bel mescolone di generi e cose che per gli intellettuali di professione è il massimo del pop, mentre a noi sembra un intelligente operazione di marketing e creatività: il sogno che genera un bisogno. In questo i cosiddetti «Valentini» sono di una bravura imbarazzante. Non a caso hanno quasi raddoppiato il fatturato in tre anni: da 274 milioni di euro nel 2010 ai 500 dell'anno scorso. Altri di cui non è carino fare il nome sono invece tentati dalla versione artistica del «famolo strano» per cui ricercano personaggi e opere sconosciute ai più, improbabili accostamenti di correnti e ispirazioni, cose intraducibili con il pragmatico linguaggio della moda.

Una giacca è una giacca, una giacca direbbe Gertrude Stein parafrasando la sua stessa tautologia sulla rosa. Per trasformare le giacche in opere d'arte quotidiana c'è voluto un uomo e uno stilista con i piedi per terra: Giorgio Armani.

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