Una lunga marcia, silenziosa e senza strappi, suggellata con l'ultima tappa: dopo sette mesi, il petrolio è tornato ieri sopra i 50 dollari il barile. Gli automobilisti se ne sono già accorti: con la puntualità cinica di una cartella di Equitalia, le major hanno subito ritoccato i listini con una raffica di rialzi, da un minimo di un centesimo per la benzina a un massimo di due cent per il gasolio. Le vacanze motorizzate saranno più care. Ride il fisco, un po' meno il nostro portafoglio.
C'è voluto un calo delle scorte Usa superiore alle previsioni e le singhiozzanti forniture canadesi (causa gli incendi in Alberta), venezuelane (scioperi negli impianti) e nigeriane (sabotaggi alle pipeline da parte delle milizie) per far cadere quella che, ancora qualche settimana fa, sembrava una barriera tecnica e psicologica inscalfibile come un vetro blindato.
Eppure da febbraio, quando agonizzava a 28 dollari nonostante le tensioni in Medio Oriente, il barile ha recuperato oltre l'80% e si è preso la rivincita verso chi, come Goldman Sachs e Standard Chartered, ne aveva già recitato il de profundis, profetizzando una picchiata addirittura fino a 10 dollari. Scenari apocalittici, con la cancellazione dalla scena energetica dell'industria americana dello shale oil e con i Paesi produttori Opec ed extra-Cartello (Russia in testa) sempre più in sofferenza finanziaria, che invece non si sono avverati.
Ma sulla possibilità di un'ulteriore ascesa di quello che un tempo era considerato l'oro nero, gli analisti rimangono scettici. Una volta rimossa la carenza produttiva indotta da fattori considerati temporanei, l'eccesso di offerta potrebbe tornare a comprimere i prezzi. Nessuna novità destinata a cambiare i livelli di output è infatti attesa dal vertice Opec, in calendario il prossimo 2 giugno. Una riunione inutile, alla luce del fallimento di metà aprile del summit di Doha, dove i principali attori della scena energetica mondiale non sono riusciti a trovare un accordo per congelare la produzione sui livelli di gennaio. La fermezza con cui l'Iran ha rifiutato di aderire a un'intesa che avrebbe costretto il Paese a limitare l'attività dei pozzi nonostante la fine dell'embargo, ha minato dalle fondamenta ogni possibilità di agreement. Persino un personaggio storico come il ministro saudita del Petrolio, al-Naimi, ha finito per pagare - con la perdita della poltrona che occupava da ben 20 anni - il tentativo di chiudere la partita anche senza la partecipazione di Teheran.
Il ritorno a pieno regime degli iraniani sulla scena petrolifera è invece dato dai 3,6 milioni di barili al giorno estratti in aprile, un record dal novembre 2011. Un fiume nero che irrompe su mercati ancora segnati da un surplus di offerta attorno al milione e mezzo di barili. L'Aie stima che l'eccesso dovrebbe ridursi a quota 200mila nella seconda parte dell'anno, ma, vista la fallibilità delle previsioni, il dato è da prendere con le molle. Del resto, va messa in conto la variabile a stelle e strisce. Un eventuale aumento del numero di trivelle attive negli Stati Uniti (la settimana scorsa è rimasto invariato dopo otto settimane di fila in calo) potrebbe pesare sui corsi del greggio. Il motivo? È presto detto: indicherebbe che la produzione Usa si sta risollevando.
Di sicuro, i 50 dollari toccati ieri sono solo una piccola boccata d'ossigeno per i Signori del petrolio.
Due giorni fa il ministro dell'Energia del Qatar, Mohammed bin Saleh al-Sada, ha affermato che era necessario un barile a 65 dollari per garantire la ripresa degli investimenti, calati in maniera spaventosa negli ultimi trimestri. La lunga marcia non è ancora finita.
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