Prendo spunto dal Guardian, dove, in una lettera aperta, la dottoressa Ranjana Shivrastava che lavora come medico ospedaliero negli Stati Uniti, si rende testimone di un'eccessiva rigidità nel tenere ricoverati i pazienti che hanno come unico compagno un cane o un gatto, invece di mandarli a casa sollevando il loro spirito dalle tenebre che piombano nei letti d'ospedale, quando la notte incombe con i suoi silenzi e i suoi fantasmi onirici. Sono soprattutto le fasce anziane a soffrire del distacco dai propri beniamini, troppo spesso l'unico conforto e la solo compagnia rimaste, dopo che i figli se ne sono andati da anni e si fanno sentire sì e no con una telefonata per le feste di Natale.
Naturalmente, se l'anziano ha necessità di ricovero per serie ragioni di salute, a parte le rarissime strutture sanitarie dove cani e gatti possono incontrare periodicamente i proprietari, dovrà per forza subire il distacco dal suo animale domestico e starà al personale medico e infermieristico capire l'importanza di questa lontananza e offrirgli un ausilio psicologico anche sotto questo aspetto.
Quello che intende trasmetterci Ranjana è che i medici chiedono agli anziani ricoverati se possiedono un animale domestico soltanto ai fini diagnostici. Molto raramente potrebbe esserci una qualche relazione tra la malattia del paziente e il suo animale domestico, ma siccome nel 99% dei casi questo non accade, dimenticano del tutto l'aspetto che tale legame assume per quanto riguarda la guarigione del paziente e non solo quella fisica, ma anche quella psichica.
Racconta Ranjana di un anziano ricoverato in ospedale dopo una brutta caduta a casa. L'uomo è stordito ma, per fortuna, apparentemente illeso. Ci vogliono alcuni giorni perché si riprenda, ma appena si rimette, chiede subito di andare a casa. L'iter diagnostico non è ancora stato completato e lui risponde che lo farà da esterno. Il fisioterapista vorrebbe dare una sistemata ai suoi tendini e ai suoi muscoli e la psicologa vorrebbe trascorrere un po' di tempo per capire meglio le sue problematiche, visto che un infermiere l'ha visto piangere di nascosto. Ma lui ostinatamente vuole andarsene a casa. «Tutti siamo consapevoli - scrive Ranjana - che il paziente non è ancora in sicurezza e lui stesso riconosce che, dopo una caduta del genere, potrebbe capitargli qualcosa d'imprevisto, eppure è disposto a firmare il registro per andarsene a casa». Ci chiediamo se è ancora in stato di commozione cerebrale oppure se è cognitivamente alterato e incapace di prendere decisioni sulla sua sicurezza, nel qual caso potrebbe essere necessario un tutore nominato dallo stato, visto che è solo. Forse si trova male in questa struttura, forse è il personale che lo tratta con troppa sufficienza o ha problemi con gli altri pazienti ricoverati. Scavando a fondo, però, abbiamo dimenticato un piccolo particolare. Un gatto.
«Vado nella sua camera - racconta Ranjana - e quando apprende che sono la sua specialista mi dice: Tesoro, per favore, lasciami andare a casa. Ti sto implorando. Va bene, ma aiutami a capire perché sei così ansioso di rientrare. Mi aspetto tutte le lamentele del mondo, ma la risposta è secca e catartica per lui: Voglio vedere il mio gatto. E mi racconta di questo micio che è un collegamento con gli anni che ha condiviso con la sua defunta moglie. Ora sonnecchia sulla sedia della donna scomparsa e attende che lui torni. Tu non puoi rimettere in sesto questo vecchio, ma puoi rimandarmi a casa dal mio gatto.
Ho intenzione di fare proprio questo, gli rispondo, mentre una nuova luce accende i suoi occhi spenti».Troppe volte, c'insegna Ranjana, frughiamo con ogni mezzo d'indagine in un corpo e dimentichiamo di porre una domanda: «Parlami del tuo animale domestico».
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