Roma - Giampaolo Pansa, è divertito. «Mai avrei pensato, in tutta la mia vita, che mi sarei ritrovato a difendere La Russa dagli attacchi dei moderati del Partito democratico! Mai. Su Salò, per giunta... Questa polemica ha qualcosa di antistorico e barbaro che non capisco e non voglio capire. L’antifascismo ringhiante di Veltroni e Franceschini oggi non è credibile. Anche perché, proprio Franceschini tre anni fa... ». Alt! Per ora ci fermiamo qui, e vi lasciamo in sospeso, perché in questa intervista c’è una storia che stupirà molti. Ma siccome il giornalista più famoso d’Italia è un fiume in piena, bisogna prima di tutto spiegare cosa pensa.
Per lui, che ci ha scritto sopra una quadrilogia saggistico-narrativa e un romanzo, la polemica sulla Repubblica sociale esplosa dopo le dichiarazioni del ministro Ignazio La Russa è l’occasione per tirare le fila di un viaggio iniziato con la tesi di laurea, da ragazzo, e proseguito con il lavoro monografico degli ultimi anni. Fino all’ultimo libro, I tre inverni della paura, che lui definisce «un via con il vento nella guerra civile». Pansa ha scritto una saga ambientata più di mezzo secolo fa, ma che oggi, quando gira l’Italia, pare un instant book. Ogni volta che lo presenta vede accorrere folle di lettori: «Cinquecento persone a Parma domenica... Chissà quante ne troverò sabato a Revere, in provincia di Mantova. Per questo pubblico, tra cui molti giovanissimi, è come se parlassi di ieri».
Pansa, perché parla proprio di Franceschini?
«L’ho visto, in televisione indignato contro La Russa, in cattedra sull’antifascismo. E sono rimasto di stucco».
Perché? Non è legittimo?
«Vede, nella Grande Bugia ho raccontato la storia di una ragazza che da bambina girava per le vie di Poggio Renatico, il suo paese, con gli occhi sempre bassi».
Per la vergogna?
«No. Era figlia di un fascista, ma non se ne vergognava. Però le vie erano tappezzate di scritte su suo papà, Giovanni Gardini. Dicevano: "A morte Gardini!"».
E chi era Gardini?
«Un amico di Italo Balbo: con la Rsi divenne Podestà di San Donà di Piave. Dopo l’8 settembre fuggì per salvare la pelle. Per fortuna ci riuscì».
Perché me lo racconta?
«La bambina si chiamava Gardenia, ed era destinata a diventare madre di un bimbo. Di Dario. Cioè Franceschini. E sa chi me l’ha raccontato?».
Chi?
«Lo stesso Franceschini! Ecco perché, quando vedo semplificazioni antistoriche, e che a farle è il Pd, scuoto il capo».
Cosa non la convince?
«Non credo che il problema del Pd sia la storia del ’45. Mi cascano le braccia se vedo Veltroni abbarbicato a questo antifascismo perdente e suicida. Perché so che il suo vero problema è Di Pietro che fa la faccia feroce. Lui allora rilancia, senza esserne convinto, perché gli stanno rubando il patrimonio».
Parliamo del primo inverno della paura, nel 1943.
«Non capisco cosa ci sia si scandaloso in quel che ha detto La Russa».
Forse il suo ruolo?
«Ma il ministro della Difesa non è un sacerdote della repubblica, tenuto all’imparzialità! Non siede al Quirinale. È un politico, un ministro. Posso citarle i numeri di Salò?».
Degli arruolati.
«Sì. Secondo le fonti della Rsi, furono più di 800mila».
Stime di parte?
«Non molto contestate, a dire il vero, ma il nodo è un altro. Vogliamo dire che erano 500mila? Il fatto è chi erano davvero questi ragazzi».
Intende il loro identikit?
«Dico che è grottesco etichettarli tutti come torturatori e amici dei nazisti! Molti di loro erano cresciuti nel regime fascista, immersi in un clima di propaganda perenne: cinema, scuola, radio... le divise dei figli della lupa... ».
E quindi?
«E quindi, la maggior parte di loro, non poteva certo schierarsi per un parlamento legittimo, che non aveva nemmeno mai conosciuto».
Giudizio storico o politico?
«Dico che quella educazione, fatalmente, portava molti di loro all’idea che difendere la patria dagli angloamericani fosse il primo dovere».
Bisogna distinguere, dice?
«Da storico "dilettante" mi occupo di queste cose dai tempi della laurea... Sono storie complesse. Altrimenti non si capisce come mai, fra quei ragazzi, ce n’erano molti che divennero sinceri antifascisti, Nomi mille volte citati: Tognazzi, Dario Fo, Vianello, persino Gian Maria Volontè».
Ma ci fu pacificazione?
«Anedotto illuminante. Quando andai al Giorno, nel 1964, Italo Pietra, che aveva fatto il partigiano, e si trovava molti ex ragazzi di Salò in redazione, scherzava: "Chi di voi mi ha fatto saltare la casa, sul monte Penice, nel rastrellamento dell’agosto 1944?"».
Difficile a credersi, con gli occhi di oggi.
«Invece accadeva. E gli rispondevano: "Io no, stavo nella brigata nera di Varese...", "Io neppure, ero con gli sciatori di Pavolini..."».
Sta cercando di dire che...
«Fino a che non arriva il detonatore violento degli anni di piombo, questo paese aveva chiuso la faida del ’45».
E teme che ora si riapra?
«Con tanto odio in giro, temo possa accadere. Un altro esempio insospettabile?»
Su chi?
«Livio Zanetti: grande maestro di giornalismo, direttore dell’antifascista L’Espresso».
Quando si seppe che...
«A metà degli anni settanta, per il dispetto di un’agenzia di stampa di destra. Ebbene: nessuno, dico nessuno, si azzardò a chiederne la testa».
Chiedo ancora: come mai?
«Erano tempi meno feroci. Forse il Pci aveva altre bandiere, il mito dell’Urss. Ecco, a me preme spiegare che quei ragazzi di cui parla La Russa, non erano quattro miserabili scherani, come vuol far credere chi polemizza con lui».
E chi erano?
«Uomini che si trovarono giovanissimi nel tempo delle scelte dure. Alcuni di loro potevano essere nostri padri. O fratelli. O persino, come nel caso di Franceschini, i nostri nonni».
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