Raramente succede nella Storia delle Nazioni che, innescatosi un processo di costruzione nazionale, questo rimanga perennemente incompiuto, sebbene in presenza di una guerra vinta e, soprattutto, di un'indefettibile tensione nazionalistica verso l'autonomia e l'indipendenza. Ebbene, questo sta proprio accadendo nel caso del Nagorno Karabakh, il territorio conteso tra l'Armenia e l'Azerbaigian oggetto di un conflitto scoppiato sull'onda indipendentista provocata alla dissoluzione dell'Urss.
Il Nagorno Karabakh, terra di insediamento storico degli armeni, trasferito per «sgarbo» nazionalistico da Stalin entro i confini dell'Azerbaigian, si è trovato costretto ad affrontare una doppia secessione: dall'Urss, ma anche contestualmente dallo stesso Azerbaigian di cui nulla aveva, storicamente, culturalmente, eticamente, per essere di estrazione cristiana, da condividere. Ne è conseguito un conflitto le cui sorti favorevoli sono state assicurate solo dall'intervento militare dell'Armenia con una guerra definita di «liberazione».
Dal 1994, dunque, il conflitto permane «congelato» e la sua originaria causa non ancora riconosciuta. E, come in tanti casi in cui la nascita de facto di un nuovo Stato risulta difficile da metabolizzare, resta in quarantena, sconosciuto ai molti, quasi fosse la questione riservata ad alcune élite politiche internazionali. Oggi il Nagorno Karabakh è una Repubblica auto-proclamatasi indipendente, riconosciuta sporadicamente da entità sub-statali come il Nuovo Galles del Sud in Australia e il Maine negli Usa, ma da nessun vero soggetto della Comunità internazionale. La conseguenza è, pertanto, il prolungarsi di uno stato di guerra non dichiarata al quale appare difficile porre fine.
La questione è, quindi, divenuta causa di instabilità politica e di incertezze economiche. E ciò in un contesto continentale reso ancora più complesso dall'emergere delle nuove dinamiche Est-Ovest sullo scacchiere euro-asiatico. Dinamiche riconducibili a vari fattori, tra cui principalmente la rivalità tra gli Usa e la Russia, intesa a sottrarre a Mosca le nuove entità statuali nate in Asia, la determinazione di Putin ad affermare la dottrina degli «interessi privilegiati» di Mosca sugli spazi ex sovietici e le strategie messe in atto dalle grandi Potenze per il controllo non tanto delle fonti, quanto del transito degli idrocarburi ritenuto ben più redditizio politicamente. Problematiche, queste, che vanno inevitabilmente a innestarsi sul già critico quadro del conflitto con una radicalizzazione degli atteggiamenti delle parti. Una tensione tenuta in sospeso dalle fragili pieghe di un accordo di cessate-il-fuoco del 1994 e imbrigliata artatamente in un processo di pacificazione condotto, con molta ipocrisia, dal cosiddetto Gruppo di Minsk dell'Osce. Il massimo che si è potuto ottenere finora è stata l'introduzione nel negoziato, come base di riferimento, dei principi di Madrid. Ma sono principi che già portano in sé il germe della contraddizione. Prescindendo, infatti, da tutti gli altri aspetti della controversia (restituzione delle sette zone occupate adiacenti al Nagorno Karabakh, ritorno dei rifugiati nei rispettivi Paesi eccetera), la questione di fondo con cui si «gioca» al disconoscimento da parte dei «grandi» del pianeta consiste nel dualismo tra il principio di auto-determinazione dei popoli, perseguito dall'Armenia, e quello della integrità territoriale voluto dall'Azerbaigian. Entrambi ricompresi nel decalogo del Gruppo di Minsk, ma senza che ci si accorga della loro intrinseca e assoluta inconciliabilità.
Intanto lo scenario cambia di giorno in giorno. Si intensificano le violazioni del cessate-il-fuoco e Baku, grazie ai lauti profitti derivati dal petrolio e dal gas, accresce il potenziale militare concedendosi a una retorica sempre più intrisa di minacce e provocazioni. Il gas azero fa gola e la sua vendita autorizza l'impunità di condotte maldestre della sua dirigenza. Appare, dunque, evidente in questo contesto l'assenza di un genuino interesse delle grandi potenze a ricomporre il conflitto nel rispetto della suprema volontà popolare.
La risposta armena a tale situazione, quindi, non può più essere ispirata alla teoria della «complementarietà» che aveva finora assicurato - in un abile gioco diplomatico - un sostanziale equilibrio sia con Mosca sia con i Paesi europei, e avvalorato al contempo la dimensione occidentale e cristiana dell'Armenia. Oggi Yerevan si vede costretta a una scelta di campo. Necessariamente deve optare per la parte che più le garantisce sicurezza e integrità territoriale. E così è stato. La strada tracciata per un Accordo di «associazione con l'Ue, pronto già a luglio del 2013 per la firma, è stata spazzata via appena tre mesi dopo dall'annuncio di Yerevan di aderire all'Unione Doganale Euro-asiatica, la struttura organizzativa voluta da Putin per ricondurre le Repubbliche ex sovietiche sotto l'influenza moscovita.
Sul versante armeno, dunque, si guarda con pragmatismo al futuro. Anche se un leggero senso di intima mortificazione alimenta la determinazione a non perdere - costi quel che costi - la terra dei Padri. Trovandosi «ingessata» nel gioco delle grandi Potenze, l'Armenia tende oggi al rafforzamento della partnership strategica con Mosca come all'unica risorsa politico-militare al momento fruibile. La percezione del Nagorno Karabakh è per contro quella di essere un Paese in bilico, che vive psicologicamente il dramma di una pace sempre più lontana.
In assenza di sviluppi capaci di influire su un «re-setting» delle varie poste in gioco, il conflitto è destinato così a permanere «congelato». Il protrarsi dello «statu quo», in fondo, giova a tutte le parti.*ex ambasciatore italiano in Armenia
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