Più lo butti giù più si tira su Il paradosso italiano del caso di Punta Perotti

BariAlle 10,32 del 2 aprile del 2006 lo specchio di mare adagiato sul lungomare sud brillava sotto il tiepido sole primaverile. Poi un boato squarciò il silenzio e fece tremare la terra sotto i piedi sollevando qualche onda che schiaffeggiò le barchette dei pescatori e i motoscafi della Bari-bene arrivati dall'esclusivo Circolo della Vela per osservare l'evento da un palcoscenico privilegiato: così saltò in aria il primo palazzone di Punta Perotti, tre torri da tredici piani ciascuna e trecentomila metri cubi di cemento giudicati abusivi e sbriciolati in qualche frazione di secondo. Ma quattro anni dopo, in una splendida mattinata di metà novembre, i fantasmi di cemento armato affiorano ancora una volta sulle ceneri di quella fetta di costa dove adesso c'è un grande prato con i giochi per i bambini, panchine di legno e qualche tendone bianco sparso qua e là per regalare un angolo d'ombra nelle torride giornate estive. Il gup del tribunale di Bari, Antonio Lovecchio, ha infatti revocato la confisca dei suoli su cui sorgevano gli edifici disponendo la restituzione ai costruttori: le società Sud Fondi, Iema e Mabar che fanno a capo agli imprenditori Matarrese, Andidero e Quistelli. I quali si sono rivolti con successo alla Corte europea dei diritti dell'uomo. E così le lancette della storia recente di una grande città meridionale che aspira al ruolo di metropoli mediterranea affacciata sui Balcani ma non riesce neanche a progettare il presente e il futuro del suo lungomare, tornano improvvisamente indietro di qualche anno: la nuvola di polvere che inghiottì le torri sembra spazzata via dalle quindici pagine firmate dal giudice, i proclami trionfalistici di chi voleva appuntarsi all'occhiello il fiore della demolizione appaiono un fiume di parole cancellate nel nome della legge, le sfavillanti interviste del sindaco Michele Emiliano ai microfoni di Rai e Mediaset e Bbc si rivelano vecchie immagini in bianco e nero oscurate dopo l'ennesimo verdetto. E adesso è tutto come prima. Al punto che i costruttori potrebbero decidere di tirare su altro cemento, anche se il sindaco torna a indossare i panni del gladiatore per rassicurare la città. "Non possiamo consentire che sull'area del parco di Punta Perotti si possa ancora edificare", tuona Emiliano, spiegando di essere pronto a rimediare con una variante al piano regolatore e soprattutto ribadendo che indietro non si torna. Ma in realtà si è già tornati indietro, insomma il passato è adesso e il futuro non promette niente di buono per palazzo di città visto che le imprese hanno presentato una richiesta di risarcimento danni da 500 milioni di euro nei confronti di Comune, Sovrintendenza e Regione.
Tutto comincia il 14 novembre del 1987, quando i costruttori chiedono il permesso di costruire su quella fetta di lungomare oscuro proiettata verso l'estrema periferia barese, una distesa di terreni incolti affacciati su una sottile striscia d'asfalto consegnata al degrado dove da decenni trovano posto villini a luci rosse, discariche a cielo aperto, piccole baie divenute punto d'approdo per i motoscafi dei contrabbandieri. L'obiettivo è riqualificare un'area lasciata ai margini nonostante la posizione privilegiata sulla costa, sospesa tra la ex frazione di Torre a Mare e le luci dei lampioni di epoca fascista che troneggiano sul lungomare dei locali alla moda. Passano gli anni e il consiglio comunale nel 1992 approva il progetto mentre nel '95 viene accordata la concessione edilizia. E dopo il via libera si comincia a costruire, dal cantiere spuntano le tre torri che secondo il primo progetto dovevano essere allineate ma successivamente vengono realizzate in modo da regalare la vista mare a tutti i futuri proprietari. Il fatto è che la vista mare viene sbarrata invece ai baresi, che si ritrovano la cosiddetta "saracinesca" sull'orizzonte sud. A poche centinaia di metri c'è il palazzone giallo di quella che all'epoca era la procura circondariale, i pm Roberto Rossi e Ciro Angelillis osservano gli edifici dalla finestra e quando sulle loro scrivanie arriva un esposto scatta l'inchiesta: i palazzi sono troppo vicini alla costa. Il 29 gennaio del 2001 il processo si chiude con la decisione della Cassazione che assolve i costruttori e dispone la confisca di terreni con l'acquisizione al patrimonio del Comune degli immobili. Cinque anni dopo inizia la demolizione. Il lungomare viene chiuso al traffico e invaso da migliaia di baresi. Emiliano si ispira a Caparezza e canticchia «sono fuori dal tunnel», per strada si vendono le magliette con le torri di Punta Perotti e il timbro «abbattuto», giornalisti da tutta Europa si accalcano dinanzi al cordone della polizia, la gente di Bari vecchia si arrampica sull'antica muraglia di via Venezia per dare un'occhiata, il vippaio barese ne approfitta per una gita in barca e godersi lo spettacolo dal mare mentre gli unici a mostrarsi preoccupati sono i tifosi della squadra di calcio perché "adesso - spiegano - Matarrese non comprerà nessuno".
Poi il conto alla rovescia e la prima torre che si sbriciola, l'assalto dei cacciatori di souvenir per accaparrarsi una pietra, un frammento di storia nell'illusione che la storia sia finita. Ma non è così. I costruttori si rivolgono alla Corte europea dei diritti dell'uomo, che il 20 gennaio 2009 condanna l'Italia, stabilisce che la confisca è un'ingerenza nel legittimo diritto dei ricorrenti di beneficiare delle loro proprietà e invita il governo a cercare un accordo. L'avvocatura dello Stato propone incidente di esecuzione dinanzi al gup di Bari Marco Guida, che respinge la richiesta di restituzione dei suoli. Ma la Cassazione annulla la decisione e quando si torna in aula il verdetto è ribaltato: la richiesta è accolta e viene disposto l'invio degli atti alla procura generale per valutare presunte pressioni esercitate dalla procura per la demolizione. "E' un primo parziale risarcimento dei danni dubiti", è scritto in una nota delle imprese.

Che avvertono: "In mancanza di una immediata e soddisfacente liquidazione del risarcimento danni la Corte europea di Strasburgo, dove la causa è ancora pendente a questo scopo, provvederà direttamente a quantificare gli importi e ad ingiungere il pagamento allo Stato italiano".

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