Pincio, vivere è un capolavoro alla Caravaggio

Pincio, vivere è un capolavoro alla Caravaggio

Da qualche stagione il re assassino di bambini, Riccardo III, ha scavalcato la tragedia di Shakespeare che deteneva il primato del numero di repliche per anno in Inghilterra, l'Amleto. Qui da noi, la popolare passione per gli omicidi non si è limitata a sconvolgere le classifiche dei libri più venduti: ha anche tolto a Michelangelo il titolo di sommo fra gli artisti e lo ha attribuito al quasi omonimo Michelangelo Merisi da Caravaggio, il pittore che nel 1606 uccise tal Ranuccio Tomassoni resecandogli l'arteria femorale con un colpo della spada che portava «senza licenza», cioè senza avere il porto d'armi.

Il fattaccio avvenne a Roma, in via della Pallacorda; ed è proprio lì, lungo una strada la cui forma ad «y» allude alle biforcazioni del destino, che Tommaso Pincio mette il protagonista del suo ultimo romanzo, Il dono di saper vivere (Einaudi). Di lui sappiamo che si è diplomato all'accademia e che per guadagnare qualche soldo prova a piazzare dei telefax Olivetti (siamo negli anni Ottanta) nelle botteghe del centro. Entrato in una galleria d'arte che ha lo stesso numero civico dell'abitazione dell'antico omicidio, nota che dalla parete pende un dipinto con la decapitazione di Golia del Cavalier d'Arpino, l'artista che di Caravaggio fu, per qualche mese, il mentore. La terza coincidenza ha il sapore più dolce: l'iracondo proprietario della galleria (si fa chiamare l'Inestinto: sarà magari un vampiro, o addirittura il Diavolo?) allunga al nostro eroe quarantadue biglietti da centomila lire, su ognuno dei quali campeggia il volto, come ricorderà chi è avanti con l'età, del pittore assassino; poi gli propone di gestire la galleria. Finché un giorno una frase dal sen fuggita «Scrivo un libro su Caravaggio!» che tutti prendono sul serio, non precipita il nostro eroe in una vicenda grottesca, tortuosa, esilarante.

Fedele all'impianto iniziatico dell'amato Pynchon, maestro di ilari postmodernismi, Pincio per ragioni palesemente deontologiche fa saltare ben presto ciò che gli altri scrittori stimano (per motivi venali) più di ogni altra cosa: la sospensione dell'incredulità.

Da faustiana, la vicenda diventa metanarrativa, poi autobiografica, mantenendo un andamento pimpante e avventuroso anche nelle pagine più riflessive e non perdendo mai di interesse. Potrebbe essere il miglior romanzo dell'anno. Speriamo che, per una volta, se ne accorgano anche i lettori.

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