Ogni tanto anche il professor Alessandro Inserra guarda Grey's Anatomy, la serie tv americana in cui la dottoressa Grey stampa in 3D un organo per curare la sua paziente. Un'illuminazione, un escamotage geniale. Ma oggi, grazie all'equipe dell'ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, la finzione è stata superata dalla realtà. «Noi siamo stati i primi al mondo ad aver ricreato tutto in 3D, non solo un organo, ma tutto il corpo». Il professor Inserra, direttore del Dipartimento chirurgico, racconta e la voce brilla di emozione, di passione. Racconta di un lungo lavoro perfetto, di un successo destinato a fare la storia della medicina. Due gemelle siamesi unite per l'addome e il torace che erano state dichiarate senza speranza. A Roma invece hanno ritrovato la vita.
Qual è la novità di questo intervento?
«La tecnologia di ultimissima generazione ci ha garantito di avere una visione da tutte le angolazioni, abbiamo usato tac tridimensionali con programmi che fino a un anno fa non erano così evoluti e non ci avrebbero dato una visione completa».
Quanto è importante in chirurgia il 3D?
«Fondamentale. Perché ti prepara la strada. Invece di procedere al buio, ti illumina il sentiero e ti azzera l'invenzione al tavolo operatorio. Intervenire sapendo già cosa ti aspetta cambia le cose».
Come vi siete preparati?
«Per più di un anno abbiamo studiato il caso. Avremmo potuto intervenire appena arrivate, quando avevano sette mesi, avremmo così dovuto fare più interventi, dolorosi e pericolosi. Invece abbiamo optato per lo studio e l'attesa. In questi mesi abbiamo applicato degli espansori cutanei per aumentare i tessuti che ci sarebbero serviti una volta separate. Preparati per ogni passaggio, e costruito due statuine con dentro gli organi».
Due modellini?
«No no. Abbiamo fatto di meglio: la riproduzione fedele con le stesse dimensioni del corpo, con la replicazione perfetta degli organi delle piccole».
Zero colpi di scena?
«La fortuna ovviamente ci ha assistito ma noi abbiamo fatto il nostro. Per questo intervento hanno preso parte 5 équipe, 40 persone. Era indispensabile che ognuno sapesse esattamente cosa fare e quando operare. Eravamo come una catena, ogni maglia legata una all'altra».
Il principale vantaggio?
«Più che dimezzate le ore di operazione. Le dico solo questo: tra dieci giorni verranno dimesse. Poco più di un mese per recuperare un intervento eccezionale».
Il momento più critico?
«Quando le abbiamo separate. Imparare a respirare in modo autonomo l'una dall'altra in uno spazio ridotto ad esempio. Una scommessa che loro hanno vinto. E anche noi».
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