America a due facce: alla Russia sanzioni e alla Cina "buffetti"

Obama colpisce economicamente Mosca, mentre con Pechino manda le navi ma non sfiora gli affari

America a due facce: alla Russia sanzioni e alla Cina "buffetti"

Il doppiopesismo sembra diventare la caratteristica principale della politica estera di Obama: dopo i casi clamorosi verificatisi in Medio Oriente, ora ne abbiamo uno esempio ancora più eclatante, che potrebbe avere ripercussioni serie sugli equilibri mondiali: la contrapposizione tra l'opposizione implacabile alla Russia per le sue interferenze in Ucraina, che molti Paesi europei vorrebbero attenuare; e l'atteggiamento prudente – per non dire tollerante – verso l'espansionismo di Pechino nel Mare cinese meridionale.

La ragione è semplice. Sebbene il comportamento aggressivo dei due Paesi abbia moltissimi punti in comune, Washington non teme al momento una reazione russa che minacci i suoi interessi; ha invece la necessità assoluta di non entrare in conflitto con la Cina, che detiene una cospicua fetta del suo debito estero, con cui intrattiene affari giganteschi e di cui ha anche bisogno per tenere sotto controllo la Corea del Nord. Perciò, mentre (nonostante una recente missione di Kerry a Mosca) insiste per mantenere in vita e magari inasprire le sanzioni occidentali contro Putin che scadono alla fine del mese, nei confronti di Xi si limita a rimbrotti verbali e qualche innocua azione dimostrativa.

Che cosa vogliono rispettivamente Russia e Cina? Il Cremlino, dopo avere occupato con un colpo di mano la Crimea, pretende dall'Ucraina la concessione di un'ampia autonomia alle sue due province russofone orientali, che si sono conquistate con le armi una virtuale indipendenza. Ha senz'altro compiuto gravi violazioni del diritto internazionale, ma ora ha firmato a Minsk un accordo per un cessate il fuoco e un nuovo tentativo di risolvere il problema sul piano diplomatico. Ha dimostrato, con le controsanzioni, che non intende farsi intimidire, ma anche che non intende portare lo scontro a conseguenze irreparabili.

Pechino, al contrario, si sta facendo ogni giorno più aggressiva. Dopo avere instaurato una «Zona di identificazione di difesa aerea» che copre tutto il Mare cinese meridionale, ha non solo ribadito le sue rivendicazioni sui vari arcipelaghi disabitati che lo costellano, ma, con una gigantesca opera di ingegneria, sta trasformando minuscoli atolli e scogli fin qui inabitabili in vere e proprie isole artificiali, su cui sta installando campi di aviazione, porticcioli e perfino una batteria di cannoni. Negi ultimi 18 mesi, ha «creato» nelle isole Spratly quasi dieci chilometri quadrati di nuova terra, che hanno prodotto a loro volta nuove acque territoriali che nessuno si è ancora permesso di violare. In questo modo, ha acquisito praticamente il diritto di sfruttare le ricche risorse metanifere e minerarie sottomarine e messo di fronte al fatto compiuto gi altri Paesi rivieraschi – Filippine, Malaysia e Vietnam – che rivendicavano a loro volta l'arcipelago.

Tra sabato e domenica scorsi, si è svolta a Singapore una conferenza sulla sicurezza, cui hanno partecipato sia la Cina, sia gli Stati Uniti sia tutti i membri dell'Asean. Il nuovo Segretario alla Difesa americano Carter ha esordito rinfacciando ai cinesi di «minacciare la stabilità della regione», ma quando l'ammiraglio Janguo gli ha risposto a muso duro che era l'America a destabilizzare la regione con la sua presenza navale ed aerea e con le sue forniture di armi ai Paesi confinanti con la Cina, ha fatto marcia indietro. Mentre il pechinese Global Times avvertiva che una guerra sarebbe stata «inevitabile» se Washington continuava ad opporsi alla creazione di nuove isole, l'ammiraglio Harris sentenziava che «questo conflitto non deve danneggiare il business». Gli altri Paesi presenti, Giappone in testa, non hanno nascosto le loro perplessità sulla reale volontà americana di opporsi all'espansionismo cinese.

Il risultato, paradossale, è questo: mentre in Europa almeno una parte degli alleati chiede (finora invano) all'America un atteggiamento più accomodante verso la Russia, in Asia i Paesi che contano su di lei per contenere Pechino si lamentano per la ragione

esattamente opposta. È vero che ognuno ha il diritto di tutelare in primo luogo i propri interessi, ma una applicazione così plateale del principio dei due pesi e delle due misure non giova certo alla credibilità della Casa Bianca.

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