Il mistero più grande degli ultimi avvenimenti siriani è perché Bashar El Assad (ammesso che sia stato lui) abbia ordinato l'uso delle armi chimiche contro la popolazione civile di una polverosa cittadina della provincia di Idlib, ultimo ridotto dei ribelli nel Nord, proprio nel momento in cui le cose gli stavano andando per il verso giusto. Dopo essere stato a lungo il pariah del Medio Oriente, che l'Occidente voleva cacciare a tutti i costi, e avere anche, prima del soccorso russo, rischiato di essere sconfitto sul campo, aveva ripreso Aleppo e Palmyra e soprattutto era stato «sdoganato» dall'America: Trump aveva detto poche ore prima che la sua rimozione dal potere non era più una priorità.
Pur controllando solo la metà del Paese e dipendendo per la sopravvivenza dai suoi alleati, aveva la prospettiva di partecipare da una posizione di forza sia ai negoziati di pace che l'Onu stava cercando di organizzare a Ginevra, sia ai piani per la ricostruzione del Paese avviati a Bruxelles. Per quanto abbia represso spietatamente la rivolta sunnita contro di lui e il suo clan alawita, usando già in passato armi chimiche e bombardando ospedali, si è sempre comportato in maniera almeno dal suo punto di vista razionale. Con l'incursione su Khan Sheikan ha rovinato tutto: ha indotto Trump a cambiare politica da un'ora all'altra, spinto un'America orripilata dalle immagini delle vittime a attaccare per la prima volta le sue forze armate e messo in serie difficoltà l'alleato russo; il Cremlino ha sì sostenuto la sua tesi dell'incidente e denunciato «l'aggressione contro uno Stato sovrano», ma non ha gradito un'azione che lo isola ulteriormente, mettendo a rischio il suo obbiettivo di conquistarsi un posto di arbitro nello scacchiere mediorientale. Per giunta, Assad ha continuato a mantenere il suo atteggiamento di sfida, definendo l'attacco americano folle e accusando Washington di avere aiutato i terroristi.
Allora, quale è la spiegazione? Se escludiamo le versioni complottistiche che hanno già invaso la rete (il sarin diffuso da agenti dell'Isis per rompere il nascente asse russo-americano, l'ordine di bombardare arrivato da un generale ribelle per screditare Assad, e altre ancora), la più logica è che il Rais abbia voluto fare pesare ai ribelli le loro recenti sconfitte e dare un avvertimento agli abitanti della provincia di Idlib che avessero ancora intenzione di collaborare alla rivolta che per loro non ci sarà pietà. Dopo tutto deve avere ragionato la reazione a diverse altre azioni di pari brutalità, specie nella battaglia per Aleppo, avevano suscitato reazioni modeste, e perciò anche questa avrebbe avuto la stessa sorte. Ma ha commesso l'errore di non tenere conto del potere delle immagini, che i ribelli sono riusciti quasi in tempo reale a diffondere nel mondo intero, risvegliando di nuovo l'interesse di opinioni pubbliche che cominciavano a interessarsi molto meno a una guerra civile che dura ormai da troppi anni.
Con tutto ciò, la posizione di Assad non è in realtà irrimediabilmente compromessa. Egli sa che rimanere aggrappato al potere è per lui, e per tutti gli alawiti, una questione di vita o di morte, perché in caso di sconfitta rischia la fine di Gheddafi. Suppone anche che il lancio dei Tomahawk sulla base di Al Shiryat non sia l'inizio di una guerra vera e propria, ma una azione dimostrativa una tantum.
Sa, infine che per quanto l'Occidente manifesti di nuovo la voglia di sbarazzarsi di lui, non può farlo senza affrontare un vero e proprio scontro con la Russia e soprattutto senza creare nel Paese un vuoto che verrebbe subito riempito, almeno in parte, dall'Isis. A meno che Putin non decida di scaricarlo e al momento sembra un'eventualità remota - dovrebbe riuscire a resistere.
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