Le bandiere nere sventolano in Bosnia, ad un passo dall'Italia, ben più vicine rispetto alla Libia. Il viaggio fra le comunità dei 3mila estremisti salafiti annidati nel cuore dei Balcani inizia ad Osve, un ex villaggio serbo sperduto fra le colline nella Bosnia centrale. Per raggiungerlo c'è solo una strada sterrata neppure segnata sulle mappe. Sembra desolato, a parte la bandiera nera che sventola con la professione di fede musulmana, molto simile a quelle di Al Nusra, la costola di Al Qaida dei ribelli siriani.
«Non sono certo contento della perdita di mio figlio, ma con la sua morte si è compiuta la volontà di Allah» spiega Hamdo Fojnica offrendoci tè e biscotti nella spartana stanza della preghiera del villaggio. Suo figlio Emrah, 23 anni, nome di battaglia Khattab, si è fatto saltare in aria in Irak. Il papà del kamikaze con il barbone salafita ammette: «È terribile perdere un figlio, ma se Allah decidesse che pure i suoi due fratelli devono andare in Siria non potrei oppormi».
Dalle poche case della zona, molte ancora distrutte dalla guerra di 20 anni fa, sarebbero partiti per la guerra santa una ventina di mujaheddin bosniaci. Appena arrivati una macchina nera senza targa ci ha superato. All'interno c'erano due giovani barbuti, uno in mimetica. Quando hanno capito che siamo forestieri sono sgommati via a tutta velocità. Fra le stradine polverose di Osve sembra di vivere in un emirato talebano con le donne coperte dal velo nero dalla testa ai piedi.
«La Bosnia non fa eccezione alla minaccia jihadista dei foreign fighters (i combattenti islamici europei in Siria e Irak nda )» spiega, Ruggero Corrias, l'ambasciatore italiano a Sarajevo. Le stime ufficiali parlano di 160 bosniaci partiti per la guerra santa, ma gli americani pensano che siano 340. «Prossimità geografica, stato di diritto fragile e una profonda crisi economica sono elementi che, in Bosnia impongono doppia attenzione - sottolinea il diplomatico - Il Governo italiano ne è consapevole e agisce su due piani: sicurezza e prospettiva europea del Paese».
L'Europa non attecchirà mai a Gornja Maoca, la più famosa enclave salafita nella Bosnia orientale. Agli inizi di febbraio era apparso il simbolo del Califfato, poi cancellato. Adesso sono rimaste le bandiere nere con la scimitarra, che sventolano fra le case e sulla moschea. La comunità isolata dal resto del mondo è nata con i combattenti stranieri della guerra fratricida degli anni novanta, che hanno ottenuto in cambio la cittadinanza bosniaca.
Il problema è che da queste semplici case sperdute fra i boschi sono andati in Siria personaggi del calibro di Nusret Imamovic, uno dei leader stranieri fra le fila di Al Qaida inserito nella lista dei «terroristi globali» dagli Stati Uniti. Da Gornja Maoca era passato anche Mevlid Jaarevic condannato a 15 anni di carcere per aver sparato con un kalashnikov contro l'ambasciata Usa a Sarajevo, nel 2011.
I barbuti non amano farsi fotografare, ma si dimostrano amichevoli. L'unica «arma» che si vede in giro è un kalashnikov di legno per i bambini, che ti salutano con il dito indice rivolto verso l'alto per indicare Allah.
«È apparenza: Sono convinti che conquisteranno Roma. Non vi rendete conto che il vero pericolo è più vicino rispetto alla Libia. La minaccia non riguarda solo la Bosnia, ma anche l'Italia e l'Europa» sostiene Esad Hecimovic, un giornalista di Sarajevo esperto dell'estremismo islamico.
Nella Bosnia occidentale, l'area di Velika Kladusa era la roccaforte del predicatore Bilal Bosnic finito dietro le sbarre lo scorso settembre per incitamento e reclutamento alla guerra santa. Ancora oggi in città ci sono 150 salafiti e nel cantone sarebbero almeno 500. L'imam moderato, Selvedin Beganovic, ha denunciato di essere stato assalito cinque volte da dicembre. Beganovic si è schierato contro il reclutamento di volontari in Siria: «Quella non è la nostra guerra. La jihad in Bosnia è la lotta contro la disoccupazione e la crisi economica». Da più parti c'è qualche dubbio sulla sua versione, ma lui racconta che la terza volta stavano per ucciderlo e mostra la ferita di un coltello vicino al cuore. «L'assalitore era mascherato e prima mi ha colpito alla testa - spiega Beganovic - Sono semi svenuto e ricordo solo che mi diceva adesso ti sgozzo».
Bosnic viveva in una grande casa a Buzim, dove una delle giovani mogli ci fulmina con lo sguardo, che si intravede sotto il velo integrale. «Non ho niente da dirvi se non che dovreste abbracciare l'Islam - sbotta - Mio marito è in carcere ingiustamente. Noi viviamo per Allah e siamo pronti a morire per lui».
Da queste parti Bosnic si è fatto fotografare lo scorso anno con i suoi accoliti ed una bandiera nera e bianca dello Stato islamico alle spalle. A casa sua ha ospitato due mujaheddin balcanici partiti dalla provincia di Belluno verso la Siria. Uno dei due, Ismar Mesinovic, è morto in combattimento nel gennaio 2104. Prima di partire passando per la Bosnia gli avevano ordinato di «reperire un drone radiocomandato da impiegare nel teatro di guerra», secondo le indagini del Ros di Padova.
Nell'area sperduta di Bosanska Bojna, a pochi chilometri da casa sua, Bosnic ha comprato almeno 8 ettari di terra per costruire una majid, un centro di preghiera salafita. La procura di Sarajevo ha accertato che nel giro di due anni gli sono arrivati 200mila dollari da un misterioso benefattore in Qatar. Non aveva scelto il posto a caso. Oltre ad essere isolato è ad un chilometro dallo sguarnito confine europeo della Croazia.
Nonostante la sbarra con il cartello «alt polizia», i posti di controllo sono chiusi e non si vede in giro una sola guardia di frontiera. Infiltrare nell'Unione europea armi o terroristi sarebbe un gioco da ragazzi.www.gliocchidellaguerra.it
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