L a chiamano ancora «intifada», ma tra gli scontri di ieri a Gaza, suggellati dal sangue dei militanti di Hamas, e la rivolta scoppiata esattamente trent'anni fa quando, sempre a Gaza, un blindato israeliano investì e uccise tre lavoratori palestinesi, c'è di mezzo un mondo.
Trent'anni fa quel mondo si fermava ai confini della Striscia. Oggi arriva a Teheran. Allora era una rivolta. Oggi è la propaggine di una guerra oscura e silenziosa. La guerra tra Israele e il suo nemico esistenziale. La guerra tra lo Stato Ebraico e l'ultima potenza musulmana in grado di minacciarne la sopravvivenza. Certo non è iniziata ieri. E ad innescarla non è stato certo Donald Trump. Si è combattuta nel 2006 al confine con il Libano. E continua in Siria dove, un giorno sì e uno no, l'aviazione israeliana colpisce i pasdaran iraniani e i loro alleati di Hezbollah sempre più vicini a trasformare le alture del Golan nel nuovo fronte del conflitto.
Da ieri però quella guerra è ancora più vicina ad Israele. Ancora più pressante. Da ieri le sue prime linee corrono tra il valico di Erez e il confine egiziano, si dipanano tra le recinzioni, le casematte e l'esile terra di nessuno che separa la Striscia dai territori israeliani. Al di là di quelle difese non ci sono più solo bambini palestinesi e secchielli pieni di sassi. Di là, dietro ai kalashnikov dei militanti di Hamas, dietro ai missili Qassam pronti a colpire Israele c'è anche, e soprattutto, il nemico iraniano. E lì da dieci anni, ma nel 2011 - allo scoppio della guerra in Siria - il suo ruolo sembrava esaurito. Nato da una costola della Fratellanza Musulmana, Hamas ha dovuto «obtorto collo» schierarsi con i fratelli sunniti, combattere Bashar Assad, fronteggiare quella potenza sciita diventata, dopo il 2007, il suo armiere e il suo finanziatore. Non è durata a lungo. La guerra l'hanno vinta Bashar e gli iraniani. E ora Hamas è di nuovo ai loro ordini.
A rilanciare la vecchia alleanza ci pensa Izz ad-Din al-Qassam, l'ala militare dell'organizzazione. Mohammed Deif, il suo capo indiscusso, il 55enne martire vivente sopravvissuto per tre volte alle bombe israeliane non ha mai rinunciato al patto di fedeltà con Teheran. Ma quel troncone umano senza più gambe, privo di un occhio e costretto a vivere sottoterra per sfuggire al nemico non può da solo garantire l'asse con Teheran. A dargli manforte c'è dal febbraio di quest'anno Yaha Sinwar. Famoso per esser stato uno dei fondatori delle Brigate Al Qassam e per la condanna all'ergastolo dopo il rapimento e l'uccisione nel 1988 di due soldati israeliani Sinwar è stato rilasciato nel 2011 in cambio della liberazione di Gilad Shalit, il militare di Tsahal rapito nel 2006 da Hamas. Nominato capo di Hamas a Gaza nel febbraio di quest'anno ha contribuito a rinsaldare i legami con Teheran.
E a dargli una mano c'è Ismail Haniyeh, un altro irriducibile nato e cresciuto nella Striscia nominato - lo scorso maggio - capo politico del movimento. Ma alla ricucitura dei rapporti con Teheran lavora anche Saleh al Arouri, l'ex capo di Hamas in Cisgiordania accusato di aver ordinato nel 2014 il rapimento e l'uccisione di tre ragazzini israeliani.
Dal Libano e dal Qatar - dove vive alla macchia da sei anni - Al Arouri fa la spola con Teheran e tiene i contatti con Sinwar impegnato da mesi a rilanciare l'attività militare e a promettere la distruzione di Israele.Il riconoscimento di Gerusalemme capitale pronunciato da Donald Trump non è stato altro, insomma, che il pretesto per passare dalla parola ai fatti. E offrire a Teheran un nuovo avamposto alle porte d'Israele.
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