Roma chiama, ma Tripoli non (sempre) risponde. Le vicende del gommone inabissatosi con il suo carico di migranti e del barcone alla deriva davanti a Misurata nonostante i tentativi italiani di sollecitare un intervento libico hanno scatenato le polemiche sulla zona Sar gestita da Tripoli e sul funzionamento di una Guardia Costiera coordinata e finanziata dall'Italia. I dati che segnalano 55 sbarchi dall'inizio dell'anno contro i 2730 dell'anno scorso sembrerebbero smentire le critiche al governo giallo verde.
Aldilà dei numeri è evidente però una sostanziale difficoltà dell'esecutivo nel garantire un azione politica capace d'influenzare con continuità le vicende libiche. Alla base di questa volatilità c'è l'assenza di un timoniere unico. Marco Minniti, a differenza di Marco Salvini, vantava un'estrema dimestichezza con un dossier libico maneggiato in autonomia fin da quand'era Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ovvero tre anni prima di arrivare al Viminale. L'attuale ministro degli Interni, già accusato di scarsa attenzione per la politica estera, sconta la necessità di condividere quel dossier con il collega degli esteri Enzo Moavero Milanesi e con il premier Giuseppe Conte. L'azione, spesso non coordinata, di questa trimurti crea non poche difficoltà ai nostri servizi di sicurezza costretti, per un'altra anomalia italiana, ad esercitare parte della funzione diplomatica. Un'anomalia esplosa ad agosto quando l'ambasciatore Giuseppe Perrone non è più potuto rientrare in sede a causa dell'ostilità manifestatagli dal generale Khalifa Haftar.
Una latenza non ancora conclusa visto che il nuovo ambasciatore Giuseppe Buccino, nominato a dicembre, attende l'insediamento a Tripoli. Il vuoto diplomatico ha influito non poco sull'organizzazione della Conferenza di Palermo trasformandola da opportunità in problema. Il tentativo, anche corretto, di riequilibrare in quella sede una politica precedentemente troppo sbilanciata verso il premier di Tripoli Fayez Serraj e di riorientarla a favore di Haftar si è trasformato in un pasticcio. Il plateale corteggiamento del generale negli incontri svoltisi sotto i riflettori internazionali ha avuto un duplice effetto negativo. Da una parte ha indebolito Serraj, pedina chiave in una Tripolitania sede dei nostri interessi nazionali (petrolio, gas e flussi migratori), dall'altra ha innescato l'ostilità di una Turchia esclusa dal summit con Haftar e lo stesso Serraj. Le conseguenze sono evidenti. La recente delegittimazione di Serraj, accusato dai tre vicepresidenti del Consiglio Ahmed Maetig, Fathi al Majbari e Abdel Salam Kajman di gestione «personalistica» del Paese dimostra come l'Italia abbia trascinato Serraj nel mirino di Ankara senza peraltro garantirgli rapporti meno tesi con il nemico Haftar. Se infatti Majbari è l'uomo del generale a Tripoli e Kajman è il rappresentante dei Fratelli Musulmani protetti da Ankara Maetig risponde agli interessi di una Misurata legata alla Turchia sul fronte economico e commerciale.
L'isolamento di Serraj e il tentativo dei tre vice di fargli le scarpe è emerso con ancor maggior evidenza negli ultimi giorni quando la Tpf (Forza di protezione di Tripoli), una coalizione di milizie schierata con Governo di Accordo Nazionale minacciato dalle bande armate di Tarhuna ha dichiarato di non voler più prender ordini da Serraj senza l'assenso dei suoi vice.
In questa situazione è evidente come la Guardia Costiera non sia in balia dei marosi, ma della situazione di incertezza generata dalla confusa azione politica di un'Italia che da una parte ha indebolito Serraj trasformandolo in ostaggio dei suoi alleati e dall'altra non è riuscita a spezzare quell'alleanza tra Haftar e la Francia di Macron che minaccia i nostri interessi nel lungo periodo.
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