"Carbonara a Brooklyn? Vi spiego come evitare i fake nei locali italiani"

Il ristoratore romano in un nuovo format tv gira il mondo cercando vera cucina tricolore

"Carbonara a Brooklyn? Vi spiego come evitare i fake nei locali italiani"

Spaghetti con polpette. Fettuccine all'Alfredo. Capresi con fette di formaggio a siluro. Cucine italiane da incubo, in giro per il mondo. Ma forse la situazione è drammatica ma non grave. Almeno secondo Francesco Panella, oste romano con tre ristoranti nel mondo (Trastevere, Brooklyn e Doha), che ha girato otto città all'estero e con l'aiuto di «expat» italiani in loco ha confrontato le principali insegne di cucine tricolori. Ne è nata «Little Big Italy», una trasmissione in onda ogni domenica dall'8 aprile alle 21,25 su Nove.

Francesco, ma all'estero si riesce a mangiare italiano in maniera decente?

«Rispondo: dipende. Ogni volta che uno in una città straniera vede un'insegna italiana può imbattersi in situazioni allucinanti. Li chiamo fake italians, ristoranti che sfruttano solo l'appeal che la nostra cucina ancora ha».

Siamo sempre adorati?

«Negli ultimi anni la classifica delle tre cucine più amate nel mondo è variata più volte ma noi non scendiamo mai dal podio. Ma c'è una differenza».

Quale, di grazia?

«Che la cucina italiana è difficilmente replicabile perché al di là degli ingredienti è impossibile restituire la tecnica, la passione, l'amore che c'è dietro».

I peggiori orrori che ti è capitato di assaggiare?

«Una pasta al pesto con sopra una salsiccia. E, ah già, quella parmigiana che aveva talmente tanto liquido che sembrava una zuppa».

Ci è passata la fame. Colpa di chi?

«Di chi cucina, certo. Ma anche chi mangia e chi giudica».

Ma chi sono i clienti dei ristoranti italiani nel mondo?

«Per il 50 per cento italiani espatriati e nostalgici. Per il 30 per cento locali curiosi. E per il 20 per cento turisti italiani all'estero. Che poi...».

Che poi?

«Che poi se sei a Bangkok perché devi mangiare italiano? Ma mangia thailandese, no? Per me quelli che partono con la pastasciutta in valigia farebbero meglio a restare a casa loro».

D'accordo. Quali sono le otto città che ha visitato?

«New York, Boston, San Francisco, Londra, Parigi, Berlino e Siviglia».

In ognuna si è fatto accompagnare da tre expat italiani nei loro ristoranti italiani del cuore. Quale città ne è uscita meglio? E quale peggio?

«C'è un po' di bene e un po' di male ovunque. Magari nello stesso locale mangi una carbonara ottima e poi una parmigiana schifosa».

Però ci saranno differenze.

«Beh dipende dai gusti locali. A Siviglia ad esempio adorano la panna. Se prepari una pasta senza panna semplicemente non la vendi. A Brooklyn, dove ci sono molti italiani espatriati un secolo fa, vige un'idea della cucina italiana decisamente old school».

Quanto l'hanno influenzata gli italiani espatriati che la accompagnano?

«Naturalmente nel gioco del format il filtro degli italiani all'estero è fondamentale. Di solito quelli che hanno lasciato l'Italia da tanto tempo si sono fatti contaminare dal Paese che li ospita e hanno un'idea della cucina italiana un po' da cartolina. Invece gli espatriati da poco, che sono anche più giovani, sono molto vicini alla nostra idea di cucina italiana contemporanea».

Che cosa le ha lasciato questa esperienza?

«Sono tornato ad amare l'Italia, l'ho riscoperta. Merito dell'amore da cui eravamo circondati ovunque andassimo. C'erano ristoratori che non dormivano per giorni sapendo che saremmo andati a mangiare da loro. Spesso si tratta di italiani di seconda o terza generazione che l'Italia non l'hanno nemmeno mai vista ma che quando la sentono nominare si commuovono».

Tu vivi a New York.

«A Brooklyn, anzi a Williamsburg. Ma ogni volta che torno a Roma mi sembra di tornare a respirare dopo una lunga apnea».

Due domande secche. Uno: il piatto italiano più tradito all'estero?

«Gli spaghetti al pomodoro. Gli stranieri pensano che sia semplice e commettono un sacco di errori. Anche se almeno sulla cottura della pasta qualche passo in avanti c'è stato».

E il piatto meglio riuscito?

«Domanda di riserva?».

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