Nell'euforia del momento, ieri molti giornali annunciavano che i quattrini della Lega sarebbero stati «immediatamente sequestrati», dovunque si trovassero e qualunque fosse la loro provenienza, grazie alla sentenza della Cassazione. Ovviamente non poteva essere così, come qualunque studente di giurisprudenza avrebbe potuto spiegare. E infatti la Procura di Genova si ritrova costretta a diramare una precisazione spiegando che non è affatto così: e che tutto resta fermo fino a quando non si esprimerà nuovamente il tribunale del Riesame, cui la Cassazione ha rispedito la palla. Certo, nella nuova decisione i giudici dovranno tenere conto di quanto stabilito dalla Suprema Corte: ma i margini per un dissenso motivato sembrano esserci ancora.
Ciò premesso, quello che sembra aprirsi è uno scenario assolutamente inedito, mai percorso neanche ai tempi di Tangentopoli: un partito che vede il suo intero patrimonio presente e futuro messo sotto sequestro, in seguito a un processo in cui figurava non come imputato ma come vittima. Proprio questa è la prima anomalia che salta agli occhi: il processo genovese a Umberto Bossi e Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega, altro non è che una costola dell'indagine nata a Milano, ed approdata in parte nel capoluogo ligure per competenza territoriale. Prima che il processo si spezzettasse, la Lega aveva chiesto e ottenuto di costituirsi in giudizio contro Belsito e i suoi coimputati. Significa che anche pm e giudici consideravano il Carroccio la parte offesa della vicenda dei bilanci falsi. La costituzione venne poi revocata nel novembre 2014 da Matteo Salvini, per ragioni mai del tutto spiegate.
Il processo approda a Genova, e qui la Procura ribalta l'impostazione, e punta alla cassaforte della Lega, chiedendo il sequestro (oltre che degli stipendi e dei vitalizi di Umberto Bossi) anche dei fondi del partito. E qui arriva la seconda stranezza. Nel processo non si afferma (neanche nei teoremi d'accusa) che la Lega avrebbe fatto sparire 49 milioni di fondi pubblici. Il capo di imputazione dice che Belsito falsificò i bilanci del partito, occultando le sue operazioni finanziarie. A quanto ammontasse il falso non si sa. Ma la Procura ne deduce che l'intero ammontare dei contributi pubblici arrivati alla Lega in quegli anni fosse stato percepito indebitamente, essendo stato ottenuto grazie a bilanci falsi. Sono questi i 49 milioni di cui la sentenza che condanna Bossi e Belsito confisca. Di fatto, sui conti della Lega ne sono stati trovati poco meno di due milioni.
Ora la Cassazione però va assai più in là, stabilendo che sarebbe giusto continuare a sequestrate le somme «ovunque si trovino». Non dice, a ben leggere, che la provenienza sia irrilevante, anzi chiede che sia «accertato il rapporto pertinenziale, quale relazione diretta, attuale e strumentale tra il danaro oggetto del provvedimento di sequestro e il reato del quale costituisce il profitto illecito». Potrebbero continuare a restare fuori dalle grinfie donazioni, contributi di parlamentari, sottoscrizioni, che non hanno nulla a che fare col finanziamento pubblico e quindi non possono essere considerati corpo del reato.
Ma intanto il botto mediatico e politico della decisione della Cassazione è forte. Anche perché l'Espresso tira fuori dei documenti che dimostrerebbero che anche Matteo Salvini, approdato alla guida del Carroccio, impiegò i fondi pubblici illecitamente incassati.
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