Il codice etico salva la sindaca (per ora)

Le dimissioni non sono previste. Sibilia: "Ma non c'è da gioire"

Il codice etico salva la sindaca (per ora)

Roma - E adesso? Mentre la procura di Roma chiede il rinvio a giudizio per falso del sindaco di Roma Virginia Raggi, i Pentastellati si interrogano sul futuro. La base, ovviamente, perché i vertici fanno quadrato intorno a Virginia, per difendere la conquista di Roma più che l'esperienza di governo della giovane avvocatessa, non certo priva di inciampi e scivolate. Lei stessa detta la linea, esultando e chiedendo pure le scuse per la caduta dell'accusa di abuso d'ufficio, e glissando strategicamente sul probabile rischio di finire alla sbarra per il falso legato alla nomina del fratello del suo ex braccio destro Raffaele Marra, Renato, promosso a dirigente del settore turismo. Fuori dal coro c'è quasi solo Carlo Sibilia, ex membro del Direttorio pentastellato, che ammette che «non sia bello» avere «in casa» un sindaco su cui pende una richiesta di rinvio a giudizio, pur compiacendosi per la scomparsa dell'abuso, che comunque, conclude il deputato, non basta a far «stappare bottiglie di champagne». Il resto dei big, a partire da Beppe Grillo e passando per Di Maio e pure per Fico, è invece fedele alla linea senza alcun distinguo, e piuttosto che mostrare rammarico per la richiesta di mandare il sindaco a processo, batte le mani per il tramonto dell'abuso d'ufficio, professa «fiducia nella magistratura» e se la prende con i giornalisti. E pazienza se a indagare la Raggi per abuso d'ufficio erano stati i magistrati, non certo la stampa.

Eppure, in caso di rinvio a giudizio, e di successiva condanna, la Raggi dovrebbe dare le dimissioni. Lo prevede la nuova versione del codice etico del Movimento, approvata a gennaio scorso, che nonostante sia molto più flessibile con gli indagati, lasciando ai vertici la valutazione sul da farsi, in caso di condanna «anche solo in primo grado», vincola gli eletti all'«impegno etico» di dare le dimissioni. Arriverà un codice etico 3.0 per scongiurare questa eventualità, nel caso in cui Virginia finisse alla sbarra? A favore di M5s giocano i tempi della giustizia, non certo fulminei, che consentono di optare per la strategia del temporeggiamento.

Certo sembrano lontani i tempi in cui sul blog del capo si reclamava per due volte in pochi giorni di cacciare gli indagati che ricoprivano pubblici incarichi. Era marzo del 2015, e la differenza, in quel caso, è che si trattava di «indagati degli altri». Ma quanto a coerenza - e a «gettare fango» - c'è da imparare: un intero post - non firmato - chiedeva le dimissioni di Davide Faraone, all'epoca sottosegretario dem all'Istruzione (ora alla Salute), caldeggiando il suo allontanamento dall'incarico perché sotto indagine per le «spese pazze» in Regione Siciliana. La web-sentenza era senza appello: «Gli incarichi pubblici vanno interdetti agli indagati finché la magistratura non fa il suo corso», tagliava corto il post sul blog di Grillo. Nel frattempo, giusto per ricordarlo, le accuse su Faraone sono state archiviate dalla stessa procura.

E anche nel Movimento, a quanto pare, qualcuno forse ha cambiato idea, e ammorbidito l'intransigenza verso la defenestrazione degli eletti indagati. Una fortuna per la Raggi. Almeno fino all'eventuale condanna. O al prossimo ritocco al codice.

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