Roma - Un testo, quello uscito dal consiglio dei ministri, rinnegato. Poi qualche modifica alla Camera da vendere alle categorie più colpite (lavoratori e aziende) come male minore rispetto alla temuta stangata per l'economia reale del Paese. Che però resta. Il decreto dignità, ieri al giro di boa parlamentare con il voto della Camera dei deputati, ha una forte impronta di sinistra. Tutto sommato prevedibile se il termine di paragone è la linea del M5S. Un po' meno per la Lega, visto che colpisce le imprese e comprende una serie di misure indigeribili anche per una destra moderata.
Il capitolo lavoro è lontanissimo da una visione liberale dell'economia. Si basa su un presupposto tipico della vecchia sinistra italiana, la certezza che il mercato del lavoro si possa manipolare grazie alla legge. La storia italiana, anche recente, insegna che a ogni stretta per via legislativa si ottengono effetti diversi se non opposti a quelli desiderati ed è probabile che succeda lo stesso per la stretta sulle assunzioni a tempo indeterminato fortemente voluta dal vicepremier Luigi di Maio.
Per i nuovi contratti resta la disciplina che secondo i pentastellati darà dignità al lavoro. In sostanza, le imprese dovranno inserire una causale dopo 12 di contratto (pena la trasformazione in rapporti di lavoro a tempo indeterminato). Poi il limite dei rinnovi (quattro) e di tempo (24 mesi). Cambia poco la conferma degli incentivi alle assunzioni volute dal governo Gentiloni o il periodo di transizione introdotto nel passaggio parlamentare. Ieri Di Maio lo ha presentato come un miglioramento del testo, ma sembra molto un volere rinviare gli effetti negativi del decreto. I giuslavoristi concordano nel prevedere un aumento delle forme di lavoro più atipiche e del lavoro sommerso tra i possibili effetti della nuova legge, insieme a un aumento dei costi per le aziende, visto che c'è un aumento dei contributi per i contratti a termine rinnovati.
Una riforma dirigista con poche possibilità di riuscita. Con un precedente recente, la riforma del lavoro del governo Monti e del ministro Elsa Fornero. Una stretta sui contratti a termine, si disse allora, ispirata dalla Cgil.
Non è un caso che i giudizi più positivi alla legge vengano da sinistra. Ad esempio dall'ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, esponente della sinistra interna del Pd, che ieri ha dato una valutazione positiva del decreto. In particolare delle nuove norme sui licenziamenti, con «l'innalzamento del 50% delle mensilità di risarcimento per i lavoratori colpiti da licenziamento illegittimo, nel caso di ricorso alla sede giudiziaria», volute dal Pd. Non è il ritorno dell'articolo 18, ma è una misura che strizza l'occhio a un mondo al quale la Lega di Matteo Salvini non appartiene.
Sa di vecchia sinistra anche la stretta sullo staff leasing, cioè il lavoro a somministrazione a tempo indeterminato. «La forma più garantita di lavoro (hai ben due datori di lavoro e ammortizzatori sociali bilaterali) nel Paese dove dilagano caporali, appalti fittizi, pseudo cooperative», spiegò giorni fa il giuslavorista Michele Tiraboschi in un'intervista al magazine Start.
Indigeribile, dal punto di vista dei moderati, anche l'unica vera eccezione alla stretta sui contratti, che riguarda la pubblica amministrazione. Ancora una volta, per il datore di lavoro pubblico valgono regole più vantaggiose rispetto a quelle che il datore privato deve rispettare.
Le norme sulle delocalizzazioni delle imprese sono state bocciate dalle associazioni degli imprenditori.
Pesa soprattutto la distanza tra le intenzioni che hanno ispirato la legge (la volontà di favorire la produzione in Italia) e i possibili risultati (scoraggiare le aziende italiane con vocazione internazionale). Errore tipico di una sinistra che si pensava non esistesse più.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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