Così la burocrazia calpesta anche la laurea triennale

La propostaavanzata in Commissione Affari istituzionali dalla senatrice Linda Lanzillotta del Pd, e accolta dal ministro Marianna Madia, di considerare la laurea quinquennale (e non già una semplice laurea triennale) requisito necessario per diventare dirigente della pubblica amministrazione mostra come sia difficile uscire dalle secche della cultura libresca. Nonostante la laurea detta «breve» fosse stata introdotta proprio per immaginare percorsi educativi più basati sull'esperienza e sulla pratica, invece che su un insieme di corsi ed esami, questa scelta del governo Renzi - che pure si vorrebbe tanto innovatore - conferma che un vero riformismo resta un obiettivo lontano.

Nessuna impresa privata adotterà mai una simile regola: valutando invece caso per caso e, soprattutto, premiando la sostanza sulla forma. Uno dei (...)

(...) protagonisti del boom economico del dopoguerra, Virginio Floriani (che dal nulla creò la Telettra), era addirittura contrario all'introduzione dei cartellini da timbrare all'ingresso e all'uscita, persuaso che un'impresa funzioni quando non misura i minuti in cui i dipendenti stanno all'interno dell'azienda, ma fa in modo che tutti lavorino bene. C'è chi può stare in ufficio otto ore a scaldare la sedia e chi, invece, in sole sette ore dà un contributo prezioso.

Va aggiunto che da sempre - basta leggere gli scritti di Luigi Einaudi - la cultura liberale insiste sulla necessità di superare il valore legale del titolo di studio. La tesi einaudiana è che ognuno vale per quello che è e che sa fare, e non già perché in possesso di un pezzo di carta. È l'idea che ogni percorso di studi è importante, ma non basta. Non è un caso se uno dei giganti intellettuali della tradizione antistatalista americana, Lysander Spooner, si batté con successo per poter esercitare la professione di avvocato anche se privo di uno specifico diploma e di altri requisiti formali.

Il cuore del problema è che quando un'impresa, pubblica o privata che sia, si affida a criteri così estrinseci per selezionare i dirigenti, questo significa che non è stata in grado di valutare le qualità reali e le specifiche abilità. È vero che nel settore pubblico non è facile introdurre quella discrezionalità nelle scelte che invece è normale e necessaria nelle aziende private, ma questo deve semmai indurre a ridurre sempre più l'area dell'intervento statale, e non già a irrigidire sistemi già ora affetti da burocraticismo. Bisogna che chi ha il compito di selezionare venga valutato sui risultati, evitando criteri troppo artificiosi.

Sotto certi punti di vista, si tratta anche di semplice buon senso.

Come si può ritenere che un neolaureato con cinque anni di corsi alle spalle possa essere più adatto a diventare dirigente rispetto a chi, magari in possesso solo di un titolo triennale, opera in quella struttura magari da vent'anni?

Ricordiamoci sempre che Benedetto Croce ed Eugenio Montale non erano laureati, ma questo non ha impedito loro di essere intellettuali di un qualche valore.

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