"Così l'establishment europeo pilotò la caduta di Berlusconi"

Lo studioso a linkiesta.it: "Si drammatizzò lo spread per arrivare al governo Monti. Che ci massacrò di tasse"

"Così l'establishment europeo pilotò la caduta di Berlusconi"

Cinque anni fa di questi tempi venivamo descritti come un Paese sull'orlo del baratro: eravamo davvero messi così male?

«Diciamo che è stata una valutazione un po' esagerata. Ho fatto un'analisi retrospettiva sull'andamento degli spread: allora erano tutti alti nei Paesi da sempre più deboli. L'Italia non stava subendo un atteggiamento particolarmente feroce, era dove le spettava in quella particolare situazione dei mercati. Non voglio minimizzare la gravità di come stavano le cose allora, però a mio parere è arrivato il momento di riconoscere che si è un po' accentuata la drammaticità della situazione dell'Italia, quasi che fosse l'unico Paese sotto attacco: se si guardano gli spread, erano sotto attacco anche la Spagna, il Portogallo, la Grecia, l'Irlanda. Sono fra quelli che pensano che Alan Friedman abbia detto sostanzialmente la verità quando ha scritto quello che ha scritto».

Friedman ha ricostruito quei mesi del 2011, raccontando nel libro Ammazziamo il Gattopardo che Napolitano aveva già contattato Monti mesi prima di nominarlo senatore a vita e, quindi, capo del governo. Si riferisce a questo?

«Sì, è evidente che a luglio era già tutto pronto, quando lo spread era relativamente tranquillo. La caduta di Berlusconi è stata pilotata. Che poi questo abbia fatto bene all'Italia, può darsi».

Chi ha voluto la caduta di Berlusconi? L'allora ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, ha scritto di un «dolce colpo di Stato» ispirato da interessi economici e finanziari.

«Non so che cosa intenda Tremonti, ma penso che non sia stata l'economia bensì la politica a estromettere Berlusconi. L'establishment europeo non lo tollerava e hanno trovato l'attimo giusto per farlo fuori. Vede, l'establishment europeo è un gruppo di persone che hanno certe idee, certi gusti, certe frequentazioni comuni e anche un certo condiviso stile di comunicazione interpersonale: Berlusconi, è facile immaginare perché, era un corpo estraneo, non era uno con cui si potesse dialogare secondo le regole comuni di quell'establishment. Ricordiamo i risolini di Merkel e Sarkozy, appunto. Devo fare però una premessa».

Dica...

«Personalmente allora, non lo nego, ero montiano. Scrissi su la Stampa vari articoli speranzosi. Tre mesi dopo però avevo già cambiato idea».

Perché?

«Proprio studiando l'andamento degli spread mi accorsi che la loro principale fonte di aumento non era il deficit ma erano le prospettive di crescita del Paese. I mercati allora avevano paura dei Paesi che non crescevano, come l'Italia. Poi però Monti fece subito una manovra recessiva e vidi che la sua linea era in continuità con la solita linea della sinistra di aumentare le tasse in maniera permanente. Nel 1992, per dire, Amato fece innanzitutto una tantum. Monti nel 2011 invece decise una manovra permanente sull'Imu, che secondo i miei calcoli ha avuto un effetto molto ampio sul valore del patrimonio immobiliare italiano: dall'inizio della crisi si è svalutato di 2mila miliardi, anche (benché non solo) per effetto della tassa sulla casa. Questo ci costerà alla fine una riduzione permanente dei consumi dell'ordine di 20 miliardi l'anno, più o meno l'impatto di una manovra finanziaria. Perché la gente ha avuto, e ha, paura di consumare e di investire».

Come si spiega che nonostante l'emergenza più o meno accentuata quel passaggio politico del 2011 non abbia rappresentato una vera svolta per l'Italia?

«Con la figura di Monti ho appunto un rapporto ambivalente. L'aspetto negativo della sua azione di governo è che abbia attuato la politica recessiva di cui ho appena parlato. Il ruolo politico di Monti è stato però in un certo senso positivo, per me, perché ha comunque avuto il coraggio di prendere misure impopolari, senza badare al consenso: tanto di cappello a quei governanti che pensano al lungo periodo e non alla prima scadenza elettorale. Dunque quella stagione montiana sarebbe stata perfetta se il governo avesse ridotto la spesa pubblica, anziché massacrarci di nuove tasse. Però non lo ha fatto».

Par di capire, dunque, che rispetto a cinque anni fa, nulla sia cambiato...

«L'Italia è questo Paese. Tutto cambia perché nulla cambi. Il Gattopardo, appunto. Il nostro problema è la lentezza del declino che stiamo vivendo. Se il declino fosse rapido, reagiremmo, ci daremmo da fare per fermarlo. Infatti nel 2011 ci siamo mossi perché l'Italia si era presa una strizza. Poi abbiamo cominciato a lamentarci dell'austerità, e lo facciamo ancora oggi. Ma sa una cosa? Noi, in Italia, non abbiamo mai fatto politiche di austerità. I conti pubblici non li abbiamo messi a posto, il Pil è diminuito e il rapporto fra debito e Pil è continuato ad aumentare anche quest'anno, tanto che anche Renzi ha dovuto ammetterlo dopo aver promesso di invertire la tendenza fin dal 2016».

Cinque anni dopo il dibattito politico nostrano sembra metterci di fronte a un altro, ennesimo momento decisivo. Si inizia a ipotizzare una successione a Renzi alla guida del governo, in caso di vittoria del No al referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale. Lei vede possibile, nelle condizioni attuali, un ritorno di una proposta tecnica come quella del 2011?

«Non credo. Checché se ne dica, dovesse davvero vincere il No (e al momento sembra questa la tendenza), non raggiungeremmo il livello di tensione del 2011. Come è accaduto con la Brexit o come si pensa accadrebbe in caso di vittoria di Trump negli Stati Uniti, vengono usati scenari allarmistici per fare del terrorismo psicologico. Ma dal giorno dopo il voto, tutto e tutti si riallineano, più o meno rapidamente. Certo, se vince il No, a mio giudizio, si aprirebbe in Italia un periodo di confusione, perché non vedo un'alternativa realistica a Renzi».

Però poteva andare diversamente? C'è chi dice che elezioni anticipate sarebbero state lo strumento migliore per affrontare la crisi, non la supplenza di un premier tecnico.

«Posso testimoniare una circostanza. In quel momento, quando maturava la stagione di Monti, in Italia c'era una grande aspettativa di cambiamento, si credeva che Berlusconi avesse fatto il suo tempo e ci fosse bisogno di una svolta radicale. Allora coordinavo un ampio sondaggio commissionato da Luca di Montezemolo e la sua Italia Futura: Montezemolo, nel 2010-2011, si presentava come la figura che poteva rappresentare questa scelta di cambiamento. I dati di quel sondaggio gli davano un potenziale elettorale del 20%, il partito di Montezemolo poteva essere la nuova Forza Italia. Questi dati stavano per essere annunciati. Fui convocato a Roma per presentarli, ma a un certo punto mi dissero che si doveva fermare tutto.

Pochi giorni dopo, Napolitano incaricò Monti di formare un nuovo governo. Interpretai quella uscita di scena così: qualcuno, forse Montezemolo stesso, aveva deciso che la bandiera del cambiamento doveva passare a Monti».

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