«Stanno cercando di fare alla moda quel che è stato fatto alla nautica: un'industria distrutta dai pregiudizi, come se tutti i proprietari di barche fossero evasori o faccendieri». Claudio Marenzi, presidente di Sistema Moda Italia, l'associazione di Confindustria che riunisce le 48 mila aziende del tessile-abbigliamento, è seriamente preoccupato per l'attacco al lusso travestito da giornalismo verità della trasmissione Report in onda domenica sera su Rai 3.
Non è la prima volta che Gabanelli se la prende con la moda, secondo lei perché?
«Una settimana fa se l'è presa con i pizzaioli e domenica con la moda o, meglio, con Remo Ruffini di Moncler: l'ha preso di mira, un attacco così diretto da sembrare quasi personale».
Veramente ha attaccato anche Prada che aveva già fatto a fettine in precedenza.
«Appunto, c'è una volontà masochistica di andare a cercare il male nelle aziende che vanno bene».
Secondo lei perché?
«Non ho certezze, posso solo azzardare ipotesi. Prima di tutto l'invidia è un sentimento molto distruttivo che si nutre di faziosità. E poi è facile prendersela con un settore che sembra, ma non è affatto frivolo. Il nostro è un mondo industriale serio, impegnativo e che funziona a dispetto di tante difficoltà. Nel manifatturiero siamo secondi solo alla meccanica tra quelli che contribuiscono di più allo sviluppo del Paese. Abbiamo una bilancia commerciale positiva per 10 miliardi su 52,5 di fatturato globale del comparto in crescita del 3,6% rispetto al 2013 e con un aumento delle esportazioni del 5,5%».
A quanta gente date lavoro?
«A 480 mila addetti. Attenzione però: nelle 48 mila aziende di Smi abbiamo dal piccolo laboratorio che produce per conto terzi ai grandi marchi tipo Armani o Prada. Se parliamo di lusso non abbiamo un dato consolidato, ma direi il 15% del totale, cioè 72 mila persone».
Ma il lusso può essere prodotto solo in Italia come dice Report?
«Questo è un punto cruciale. Loro a dir la verità fanno di ogni erba un fascio instillando l'idea che il lusso sia prodotto ovunque fuorchè in Italia. Non è così. Ci sono alcune lavorazioni molto semplici dove la qualità percepita è così bassa che non conviene produrre qui. Con la mia azienda (la Herno di Intra, ndr) produco il 60% sul territorio nazionale e il resto in Romania. Lo dico fuori dai denti come l'ha sempre detto Ruffini. Il vero problema è un altro».
Quale?
«Noi imprenditori stiamo lottando da tempo per rendere obbligatoria la certificazione "made in" su tutti i prodotti non food, ma i Paesi del nord Europa, Germania in testa, non ne vogliono sapere. La volontà popolare si è già espressa largamente a favore di questa normativa con 476 voti e 75 contrari. Peccato che a livello europeo l'ultimo passaggio di una normativa sia dato dal consiglio dei primi ministri e su questo siamo in minoranza per cui non passa».
Così avremmo la famosa tracciabilità anche per le piume delle povere oche?
«Ma anche quella è una forzatura. Certo l'hanno fatto vedere, per cui c'è qualcuno che usa piume d'oca o di anatre spennate vive con quei metodi atroci, ma è un sistema talmente antieconomico che non mi sembra praticabile da una grande industria del lusso. Poi il discorso sul divario tra costi e ricavi era incredibilmente superficiale: non ho sentito menzionare cose costosissime per qualsiasi impresa: ricerca e sviluppo, prototipi, struttura commerciale, retail, ammortamento costi dei negozi, pubblicità».
Ma è vero che un'ora di lavoro in Italia costa 16 volte di più che in
Cina?«Dicono. Di sicuro in sei Paesi dell'Est Europeo il costo medio della manodopera tessile è 6,7 dollari Usa contro i 22,67 dell'Italia. Perfino la Svizzera costa meno di noi. Siamo il Paese più caro del mondo».
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