Il custode di tutti i conflitti veglia 455 milioni di morti

Un museo unico al mondo: dal pilo del centurione che trafisse il costato a Gesù alla divisa del generale Cadorna. "Cos'è la guerra? Una tentazione continua"

Il custode di tutti i conflitti veglia 455 milioni di morti

Si può vivere inseguiti da 81 milioni di morti (stima per difetto), tanti ne provocarono i due conflitti mondiali del Novecento? Anzi, da 455 milioni, tanti ne ha conteggiati lo studioso americano Matthew White esaminando le 100 peggiori atrocità della storia? Questo fa ogni giorno Camillo Zadra, provveditore del Museo storico italiano della guerra ospitato nel Castello di Rovereto. «Mi è arrivata oggi da Jeannie Cannistrà Battin, abitante a Franklin, nel Tennessee», apre un plico. «Sono 14 missive che suo padre, Giuseppe Cannistrà, originario di Lipari, fatto prigioniero dai tedeschi dopo l'8 settembre 1943, spedì ai familiari: “Non state con pensiero se non ricevete miei notizii...”». Provengono dallo Stammlager 17° A, gemello del 17° B, «l'inferno dei vivi», che ispirò al regista Billy Wilder il film Stalag 17. «Scrive la signora: “È molto difficile separarmi da queste lettere”. La capisco. Ha voluto che fossero custodite qui per sempre».

Il museo, unico al mondo, esiste dal 1921. Avrebbe dovuto occuparsi soltanto della Grande guerra da poco conclusasi. Invece dal 1924, per statuto, ha cominciato a raccogliere tutto ciò che riguarda la più insensata delle attività umane: strumenti contundenti del Neolitico e dell'Età del bronzo; un pilo, la lancia della fanteria romana, datato fra il III secolo a.C. e il I d.C., dunque uguale a quello con cui il centurione Longino trafisse il costato di Gesù crocifisso; un mortaio da 30,5 centimetri, vanto dell'esercito austroungarico, e altri 37 pezzi d'artiglieria; 10.000 fra armi bianche e da fuoco di tutte le epoche, fra cui decine di fucili e mitragliatrici; 160 divise degli eserciti d'ogni nazione, compresa quella del generale Luigi Cadorna, e una camicia rossa garibaldina che sembra appena uscita dalla sartoria; 12 veicoli militari; due aerei, un Fairchild e un Nieuport 10, con le resistenze elettriche che riscaldavano le orecchie e i piedi del pilota; un carrarmato M43; un'autoblindo canadese; persino un'intera sala di ceramiche che narrano le vicende belliche del Risorgimento, celebrandone i protagonisti (Napoleone III, Francesco Giuseppe I, Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi, Mazzini), e un rifugio antiaereo. E oltre 70.000 immagini catalogate («quella del '15-'18 fu la prima guerra fotografata in ogni suo aspetto»), manifesti di propaganda, avvisi d'ordine (gli odiosi Befehl asburgici e nazisti), giornali, epistolari, oggetti d'uso quotidiano. Un campionario che abbraccia, con le due guerre mondiali, anche le tre guerre d'indipendenza, la guerra italo-turca, le campagne per la conquista della Libia, la guerra d'Etiopia, la guerra civile spagnola, la campagna dell'Africa orientale italiana, arrivando a coprire la crisi di Suez, la guerra di Corea, la guerra del Vietnam, i conflitti nel Corno d'Africa.

«Questo è il luogo dove cittadini e collezionisti sentono di poter depositare le loro memorie private perché diventino parte di una memoria pubblica», dice Zadra, 64 anni, già docente di lettere nella scuola media. «Senza queste testimonianze, che rendono conto di una storia più grande, non potremmo mai capire che cos'è accaduto». Un po' è dispiaciuto, il provveditore del museo, d'aver dovuto abbandonare l'insegnamento. Con spirito da civil servant, l'ha presa come una missione: «I soci sono 300, ognuno paga 40 euro di quota annua, presidente e consiglieri non percepiscono né emolumenti né rimborsi». Quando nel 1996 il Comune di Rovereto gli consegnò le chiavi del castello, dove lo sguardo spazia dal monte Baldo al gruppo del Bondone, non pensava di arrivare a celebrare il centenario della Grande guerra. «Fra il 1914 e il 1918 si consuma un rivolgimento sociale senza precedenti nella storia dell'umanità. Nelle fabbriche le donne prendono il posto degli uomini mandati al fronte. I giovani adibiti ai lavori militari sono pagati in moneta sonante e per la prima volta non devono più dipendere dai padri. Si spezzano le relazioni familiari. Attecchiscono costumi sessuali impensabili per quell'epoca. Nasce l'inflazione come fenomeno permanente: in Francia, Gran Bretagna e Russia i prezzi raddoppiarono, in Austria, Germania e Ungheria quintuplicarono».

Il ricordo dell'«inutile strage», come ebbe a definirla Benedetto XV nel 1917, è tuttora vivo fra le genti del Trentino, se non altro perché da questo castello per 35 anni, fino al 1960, ogni sera alle 20.30 si sono sparsi per la Vallagarina i 100 rintocchi della Maria Dolens, fusa nel 1924 con il bronzo dei cannoni offerti dalle nazioni coinvolte nel bagno di sangue. Oggi la campana dei caduti fa ancora udire la propria voce dal colle dietro il maniero, vicino all'Ossario di Castel Dante, dove con le spoglie degli irredentisti Fabio Filzi e Damiano Chiesa, fatti impiccare da Cecco Beppe, riposano i resti di 11.500 soldati italiani e di altri 8.500 delle più diverse nazionalità: austriaci, ungheresi, serbi, cechi.

Che cosa guida la gente al Museo storico della guerra?

«Uno sguardo compassionevole, il desiderio di toccare con mano quanto patirono i soldati nelle trincee. Ciò vale soprattutto per quelli caduti dal 1914 al 1918, ben 650.000 di nazionalità italiana, di cui 400.000 in combattimento, 100.000 in prigionia, i rimanenti per malattie e denutrizione. Il visitatore cerca risposta a una domanda: come fu possibile che 10 milioni d'individui si siano massacrati fra di loro?».

Perché fu definita la Grande guerra?

«Per le dimensioni planetarie: 28 nazioni coinvolte e 67 milioni di militari mobilitati. Per l'ampiezza dei fronti di battaglia. Per le sofferenze arrecate alla popolazione civile. Lei pensi che la sola Germania ebbe 600.000 morti per fame».

A Valdobbiadene, nel Trevigiano, una lapide riporta questa contabilità: «Cittadini uccisi dai proiettili n. 51. Cittadini morti per fame n. 484».

«Mia madre, suddita austroungarica, era nata nel 1904, viveva a San Michele all'Adige, e mi raccontava di come persino i contadini, espropriati di tutto dalle truppe in marcia verso il fronte, fossero ridotti all'inedia. Alla fine del conflitto, un soldato austriaco pesava mediamente 10 chili in meno di quello italiano».

L'esercito di Vienna era considerato il più efficiente al mondo. Com'è che perse la guerra?

«Perché fu la prima di tipo industriale. Poteva vincerla solo chi fabbricava più armi e coltivava più frumento. La guerra ha questo di paradossale: immobilizza milioni di uomini, i quali, anziché produrre, dissipano e distruggono, epperò hanno bisogno di mangiare di più e meglio. L'intervento degli Stati Uniti fece la differenza. Il primo anno fu micidiale per gli Imperi centrali isolati dal blocco commerciale, che si trovarono a doversi misurare su tre fronti: russo, serbo e italiano. Solo fra agosto e dicembre del 1914 persero, fra morti, prigionieri e feriti, 1 milione di uomini».

Vi furono lutti nella sua famiglia?

«Non esiste famiglia che non sia stata toccata dalla catastrofe. Un mio zio fu ucciso in Galizia: è sepolto in Polonia. Un altro sul Col di Lana. Vennero arruolati con la divisa austriaca fra i 55.000 e i 60.000 trentini. Il 20 per cento di essi non tornò a casa».

La mitragliatrice fece la differenza.

«L'Italia entrò in guerra nel 1915 con poche centinaia di mitragliatrici Perino, che per funzionare avevano bisogno di tre uomini: uno portava l'arma, uno l'affusto e i nastri con i proiettili, uno il bidone d'acqua per raffreddare la canna. E ne uscì con la pistola mitragliatrice Villar Perosa, arma automatica leggera individuale, raffreddata ad aria. Nella guerra di trincea, la mitragliatrice fu la regina della terra di nessuno. Sparava 400 colpi al minuto contro reparti che andavano all'assalto con la baionetta».

E poi furono impiegati i gas letali.

«Dall'iprite al fosgene».

Sull'Isonzo gli austroungarici usarono le mazze chiodate per finire i soldati italiani tramortiti, sfondandogli il cranio. I nostri ricambiarono nella battaglia della Bainsizza, utilizzando i gas all'alba, per cogliere nel sonno i nemici sprovvisti di maschere.

«Le mazze che ha visto nelle teche del museo erano uno strumento di morte terribile, ma assai poco maneggevole. Avevano più una funzione intimidatoria, venivano fornite alla truppa per rafforzarne lo spirito aggressivo».

Ma esiste un'etica della guerra che metta al bando i gas e le mazze chiodate? O non è piuttosto la guerra una sospensione di qualsiasi etica?

«È una domanda che intimorisce. Quando un soldato piomba nella trincea nemica con un carico di adrenalina spropositato, dopo aver corso fino allo spasimo sotto il tiro delle mitragliatrici, perdendo un litro d'acqua in sudore e stress, gli si può chiedere il controllo dei nervi, il sangue freddo, l'etica? Gli arditi non facevano prigionieri, li addestravano per quello. Davanti al nemico che alzava le mani in segno di resa era più facile che si fermasse un contadino. Fino a che non comparve il lanciafiamme».

Peggio dei gas.

«Lo usarono tutti nelle trincee. Per ripulirle, lo metta fra virgolette. Fu l'arma indiscriminata più detestata dai soldati».

Non vedo differenza dall'individuare i nemici anche di notte con droni telecomandati e raggi infrarossi, per poi annientarli mediante i puntatori laser, manovrati da soldati comodamente seduti davanti a una console distante migliaia di chilometri. Se vuole, le mando un filmato.

«Vivo tutti i giorni dentro una guerra rappresentata, ma non riesco a vedere un'uccisione neppure nelle fiction. Definire guerra un simile genere di attacchi rivela tutta la fragilità della parola. Anche l'artiglieria sparava da 10 chilometri di distanza, colpiva senza vedere. Però quella era ancora una guerra combattuta fra eserciti. Oggi non esistono più le uniformi. Ci sono solo formazioni militari super armate non identificabili. E spesso un civile è anche un combattente».

Europei arruolati nell'Isis, guerriglia negli stadi, accoltellamenti fuori dalle discoteche. La sparo grossa: forse ai giovani manca l'esperienza della guerra che segnò tutte le generazioni precedenti alla loro?

«Chi ha una famiglia, una casa e un lavoro non è affascinato dalla guerra».

S'è mai commosso davanti a queste vetrine?

«Ahimè sì. L'ultima volta m'è capitato sfogliando il memoriale che ricorda Ugo Marcangeli, originario di Priverno, provincia di Latina, arruolato a 17 anni e caduto quattro mesi dopo essere arrivato a Col dei Grassi, sul monte Grappa. Il padre, un professionista appassionato di fotografia, incollò tutte le immagini del figlio, dalla culla fino all'uccisione. È un album enorme, alto 20 centimetri, che si chiude con la foto della mamma accasciata sopra la tomba. Straziante».

Che senso ha avuto far scorrere tanto sangue per la difesa di confini che il trattato di Schengen ha abolito?

«Mettiamola al contrario: forse è stata la Grande guerra a farci arrivare agli accordi di Schengen. Esistono ancora confini linguistici, religiosi, persino alimentari. In Trentino lei non vede tutti i crocifissi con i simboli della Passione che trova a ogni crocevia in Alto Adige, eppure la fede cattolica della gente è identica. A Rovereto si fa il pane con la farina di frumento, a Bolzano con la segale. È l'ideologia costruita attorno a questi confini, il nazionalismo, ad aver provocato milioni di morti. Un atteggiamento infantile, la rappresentazione narcisistica di se stessi come superiori a tutti. Invece dovremmo imparare a non sorprenderci che gli altri siano diversi da noi, diventare curiosi del loro modo di vivere. Studiare le guerre serve a questo: a capire ciò che non vogliamo essere».

Perché da 70 anni in Europa non si combatte più una guerra?

«Mi chieda piuttosto: perché dopo la prima ci fu la seconda? È la seconda ad aver replicato all'ennesima potenza gli effetti della prima, 50 milioni di morti, e a far capire, con l'utilizzo della bomba atomica, come sarebbe stata la terza».

Ma lei teme che possa scoppiare la terza?

«Sì. Perché la guerra in Irak e in Siria, o quella fra Russia e Ucraina, non riguardano l'Irak, la Siria, la Russia e l'Ucraina, bensì il mondo».

«La guerra è una follia, il suo piano di sviluppo è la distruzione», ha detto Papa Francesco al sacrario di Redipuglia.

«Le guerre le proclamano i governi, non i soldati. Noi passiamo la vita a controllare i nostri istinti peggiori. Le istituzioni, anche le più imperfette, sono il prodotto di questo massimo sforzo collettivo».

Allora che cos'è la guerra?

«Una tentazione continua».

(741. Continua)

stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica