Domenica 23 novembre 1980. Ore 19:34. Sembra una domenica come tante. Ho 16 anni e sono con due amiche in via Pretoria, la strada dello «struscio» di Potenza. Alzo lo sguardo sull'orologio della Prefettura. Stanno per scoccare le 19:35. Quando la lancetta dei minuti è lì per concludere il giro, si sente un boato. Il vetro dell'orologio della Prefettura si spacca: una «ferita» che cicatrizza l'ora X dell'inizio della scossa. Seguiranno 90 secondi di terremoto del decimo grado della scala Mercalli (equivalente a 6,5 della scala Richter). Due regioni sconvolte: Campania e Basilicata. Bilancio terrificate: 2.914 morti, 8.848 feriti e 280.000 sfollati. Potenza è tra i centri più colpiti. La zona dove mi trovo al momento del ruggito del sisma è la parte vecchia della città: le case sono fatiscenti e si sbriciolano come biscotti wafer colpiti dai proiettili al tirassegno del luna park. Tutto intorno è fumo e macere. Subito dopo la scossa, accompagno a casa le due mie amiche e mi avvio verso Montereale, il quartiere dove abito. Lungo il tragitto sento gente che urla e si dispera. Una voce mi fa sobbalzare: «A Montereale sono crollati tre palazzi e ci sono morti e feriti...». Mi viene da piangere. Resisto. Corro come un disperato. Dopo pochi minuti arrivo davanti al piazzale della palestra Coni, a pochi metri da casa. Lì trovo mio padre, mia madre e mio fratello. Ci abbracciamo. Chiedo: «Perché non siete a casa?»; «Perché i muri sono venuti giù. Noi siamo salvi per miracolo», rispondono. «Ma è vero che sono crollati dei palazzi? Che ci sono dei morti?». Sì, è vero: tre edifici gemelli di 4 piani sono ormai polvere e sotto giacciono corpi senza vita. Le prime notti le trascorriamo nell'auto di famiglia (una Mini Minor). Insieme battiamo i denti dal gelo. Nessuno chiude occhio. Le scosse si ripetono implacabili. Dopo qualche giorno ci trasferiamo nella tendopoli del campo sportivo FIGC nel quartiere Rossellino. La situazione è paradossale: nello stesso terreno di gioco in cui ogni settimana disputavo il campionato di calcio «Allievi», ora vivo da terremotato. Negli spogliatoi dove tra il primo e secondo tempo di ogni partita, «don Peppino», il custode del campo, ci offriva dell'«ottimo» tè bollente gusto limone, ora i soldati dell'Esercito (a quel tempo la Protezione civile ancora non esisteva) ci servono il pranzo e la cena. Nelle tenda si gela più che in auto. Ma dopo qualche tempo «conquistiamo» l'agognata roulotte. È di colore verde e di marca «Laverda». Qui stiamo un po' meglio, ma c'è una controindicazione non da poco: basta che uno di noi si muova, e la roulotte inizia a tremare. «Ma siamo noi o è una nuova scossa di terremoto?». Ce lo ripetiamo decine di volte al giorno. Sembra una sciocchezza, ma per chi ha già il sistema nervoso a pezzi l'«equivoco tellurico» si rivela un ulteriore moltiplicatore di angoscia. Dopo la «fase roulotte», ci trasferiamo in albergo: il Tourist Hotel di Rifreddo, zona (lo si capisce dal nome) dal clima glaciale. Intorno c'è la neve e c'è chi giura di sentire anche l'ululato dei lupi. L'atmosfera ricorda un po' quella dell'hotel Overlook di Shining, il capolavoro di Kubrick dove Jack Nicholson va fuori di testa. Anche al Tourist Hotel si rischiava, alla lunga, di andare fuori di testa e così mio padre pensa bene di riportarci in città affittando un appartamento al quinto piano proprio nello stesso palazzo in cui abitavamo prima del sisma. Per massimo della sfortuna, infatti, in quel palazzo l'unico appartamento dichiarato «totalmente inagibile» è il nostro al primo piano. Nei mesi successivi la città si riempie di container (burocraticamente definiti «moduli abitativi»). Ne arrivano centinaia e vengono collocati ovunque. In uno di questi «cosi» trascorro tantissimo tempo in qualità di «apprendista giornalista» del settimanale Cronache di Potenza. Anche l'originaria sede del giornale è stata infatti irrimediabilmente danneggiata dal sisma e così la redazione (due scrivanie, due macchine da scrivere e tre sedie) trova «provvisoriamente» posto in un container. Noi di Cronache di Potenza, in versione «scatoletta», abbiamo lavorato così per anni, senza mai saltare un numero. Distribuendo il giornale a mano anche nella settimana immediatamente successiva alla scossa che aveva messo in ginocchio la città. Il nostro container - esattamente come tutti gli altri - ha una sinistra prerogativa: è un freezer in inverno e una stufa in estate. Si tratta degli stessi container che ora Renzi assegnerà ai terremotati del Centro-Italia. Che è bene sappiano cosa li aspetta. Di seguito, per loro, ecco un rapido promemoria logistico: aperta la porta ci si trova subito dinanzi a un microscopico bagno chimico e a un ancora più microscopico doccino.
Sulla sinistra si apre un'«ampia» stanza lunga tre metri e larga due. Infine una stanzetta di «disimpegno» grande circa la metà della stanza «ampia». Renzi ha detto che «nei container si starà bene». Evidentemente non sa di cosa parla.
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