Il dado è tratto. Che siamo in guerra non c'è neppure più bisogno di dirlo, basta guardare i fatti, e lo ammettono tutti, dai leader mondiali alle gerarchie ecclesiastiche. Ma con l'attacco alla chiesa di Saint Etienne du Rouvray e lo sgozzamento del parroco, i terroristi islamici hanno voluto lanciare un chiaro messaggio che nessuno oggi gradisce: questa è una guerra di religione. Piaccia o non piaccia, è inutile girarci intorno. Certo, dargli questa definizione nel ventunesimo secolo appare anacronistico, sembra di ripiombare nel Medio Evo. Ma qual è il grado di civiltà e il livello sociale nello Stato Islamico? Medievale, lo sappiamo tutti, e non solo per la brutalità che lo contraddistingue. Il Vaticano, però, non ne vuol sentir parlare. Anche ieri Papa Francesco, nell'affrontare per la prima volta con i giornalisti l'attacco alla chiesa nel cuore della Normandia, ha voluto ribadire che non è una guerra di religione.
«Questa è guerra. Abbiamo paura di dire questa verità: il mondo è in guerra perché ha perso la pace - ha detto Bergoglio - Quando parlo di guerra parlo di guerra sul serio, non di guerra di religione. C'è guerra di interessi, c'è guerra per i soldi, c'è guerra per le risorse della natura, c'è guerra per il dominio dei popoli, questa è la guerra. Qualcuno può pensare sta parlando di guerra di religione: no, tutte le religioni vogliono la pace, la guerra la vogliono gli altri, capito?». Apprezziamo e stimiamo il Pontefice, il cristianesimo è diventata una religione di pace e il messaggio non potrebbe essere diverso. Ma non possiamo far finta di niente, lo Stato Islamico ha dichiarato il jihad, cioè la guerra santa, quindi per quei musulmani e per i loro seguaci, è una guerra di religione. E non da oggi. Si possono sicuramente fare delle distinzioni, perché non tutto l'islam ha dichiarato la guerra santa, ma solo il suo braccio integralista, come wahabiti e salafiti. Ebbene, rimane sempre una guerra santa, qualunque faccia si voglia guardare. E non solo per l'attacco alla chiesa di Saint Etienne du Rouvray, che ci ha maggiormente impressionato perché è avvenuto nel cuore dell'Europa, ma per tutti gli attacchi sanguinosi ai luoghi di culto cristiani e ai massacri di religiosi e fedeli, dalla Nigeria alla Siria, dall'Iraq fino al Pakistan. Quindi, forse è ora di non porgere più l'altra guancia perché colpirebbero anche quella, una, cento, mille volte. Ma il mondo cattolico nostrano non ci sta. Il vescovo Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, invita i cattolici a non farsi strumentalizzare per «evitare logiche di chiusura e di vendetta» e ha ribadito il suo invito «all'accoglienza». Stessa linea anche per il presidente della Cei, monsignor Angelo Bagnasco che ha insistito come il Papa nel dire che non bisogna credere che «sia in atto una guerra di religione». Più spinta addirittura la posizione dell'associazione Migrantes, che per bocca di monsignor Gian Carlo Perego ha esortato a non indebolire la cultura dell'incontro. Anche Paola Binetti, deputata cattolica di Ap, riprende le parole del Pontefice e rilancia dal canto suo «il messaggio di pace, di perdono e di reciproca fraternità».
Ora sono in molti a chiedere «più sicurezza nei luoghi di culto», come i leader religiosi di tutte le fedi che sono stati ricevuti ieri all'Eliseo da Francois Hollande. Ma a Roma la questione non si pone, anzi.
Anche se lo Stato Islamico colpisce luoghi di culto e religiosi, il Vaticano, seppure spaventato, non ha intenzione di vedere le chiese militarizzate, almeno in Italia. Quindi, porte aperte come sempre nelle chiese e niente uomini armati a proteggere chi va a messa. Ma in Vaticano non dovrebbero scordare che i fedeli sono anche cittadini e che lo Stato ha il dovere di difenderli.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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