Finora erano voci insistenti, chiacchiere dell'ambiente, interviste giornalistiche: che ronzavano tutte intorno allo stesso tema, ovvero l'insofferenza di Beppe Grillo verso i suoi doveri di contribuente. Ma ora si scopre che nel febbraio 2015 del singolare rapporto tra Grillo e le tasse si sono dovuti occupare anche i carabinieri. In una caserma di Santa Margherita Ligure, i militari interrogano un signore che con il leader dei 5 Stelle ha avuto a lungo rapporti d'affari. Il testimone mette nero su bianco: Beppe Grillo prendeva i soldi in nero. Un'evasione fiscale in piena regola, da parte del comico trasformatosi nell'alfiere dell'onestà-onestà-onestà.
Grazie a quel verbale, d'ora in avanti chiunque potrà dare a Grillo dell'evasore senza venire condannato per diffamazione. Lo ha stabilito, con una sentenza riportata ieri dal Foglio, il giudice per le indagini preliminari di Genova, Massimo Cusatti, assolvendo con formula piena l'attore Luca Barbareschi, che da Grillo era stato querelato. Legittimo diritto di critica, scrive il gip, basato su fatti reali come la testimonianza raccolta dai carabinieri.
A sollevare le ire di Grillo era stata una dichiarazione a Radiodue, in cui Barbareschi diceva: «Faremo la verifica fiscale a Grillo dove ci racconterà tutte le volte che è stato pagato in nero, per vent'anni della sua vita». Querela immediata, con l'avvocato di Grillo (ovvero suo nipote Enrico) che accusa l'attore di avere usato un «tono gratuitamente offensivo». Per difendersi, Barbareschi aveva depositato le interviste pubblicate nel 2011 dal Secolo XIX e nel 2014 dal Giornale al re della Milano by night degli anni Ottanta, l'impresario Lello Liguori, creatore anche del Covo di Nord Est a Santa Margherita. «Detesto Beppe Grillo perché va in giro a fare il politico, a sputtanare tutti quanti, ma quando veniva da me, carte alla mano, si faceva dare 70 milioni: dieci in assegno e 60 in nero». Episodi di questo tipo, spiegava Liguori, si erano ripetuti varie volte, sia in Liguria che a Milano. Quasi una prassi costante.
Forse sarebbero bastati quei ritagli a fare assolvere Barbareschi. Ma il pm sul cui tavolo è approdata la querela di Grillo, il sostituto procuratore Francesco Cardona Albini, decide di vederci ancora più chiaro. I giornali potrebbero avere forzato le dichiarazioni di Liguori. E così il pm incarica i carabinieri di Santa Margherita di convocare l'uomo: e quello non si tira indietro.
È un personaggione, il vecchio Liguori. Per anni nei suoi locali notturni si incrociava di tutto, dai politici ai boss della criminalità organizzata. Lui stesso è stato arrestato per le dichiarazioni del pentito Angelo Epaminonda, processato e infine assolto. Un'autorità nel suo campo: astuto, navigato, e abituato a non parlare a vanvera.
Il 21 febbraio 2015, davanti ai carabinieri, mette a verbale: «Beppe Grillo in quegli anni non era molto famoso e io avevo organizzato circa 4/5 serate nei miei locali, sia al Covo di Nord Est che allo Studio 54 di Milano. Per le serate gli accordi erano che io personalmente pagavo nelle mani del comico Beppe Grillo un assegno di dieci milioni delle vecchie lire e i 60 milioni in nero e in cotanti. Ribadisco che tutto ciò avveniva tra me e il comico».
Nelle interviste, Liguori era stato ancora più dettagliato e colorito: «Una sera al 54 c'era molto più afflusso del previsto, c'era gente fuori. A un certo momento Grillo mi ha preso da una parte e mi ha detto: guarda che voglio 10 milioni in più altrimenti non lavoro. Naturalmente io non sono l'ultimo arrivato, l'ho preso per le orecchie, l'ho portato in camerino e ha fatto la serata». Ma basta la dichiarazione messa a verbale perché il pm Cardona Albini chieda il proscioglimento di Barbareschi.
Grillo viene avvisato, e presenta atto formale di opposizione all'archiviazione. Si tiene l'udienza preliminare.
Ma il giudice dà ragione al pm, torto al leader pentastellato e assolve Barbareschi: vista «la circostanza già riferita dal Liguori, confermata direttamente dalla fonte della notizia», e considerati «la dimensione pubblica del personaggio e l'obiettivo interesse che può riconoscersi a tali fatti», va riconosciuto all'indagato il diritto di critica, «essendosi questi limitato al riferimento di circostanze che erano già state rese pubbliche, di obiettiva rilevanza sociale e mai smentite direttamente dall'interessato».
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