Il suo cruccio si chiama Loris D'Ambrosio. «Non posso dimenticare», ha scandito Giorgio Napolitano in Senato. Non si può archiviare la tragedia di un magistrato colto e preparato, morto di crepacuore dopo la pubblicazione delle sue conversazioni. Ora re Giorgio punta il dito accusatore. «C'è chi ha pagato prezzi altissimi al giustizialismo, grazie anche alla pubblicazione di intercettazioni manipolate. Come è successo al mio consigliere D'Ambrosio che ci ha rimesso la pelle».
Oggi è tutto chiaro. Senza ombre e silenzi. Ma ieri non era così. Napolitano, Renzi e tanti altri tacevano, assecondavano, nascondevano dubbi e timori. Anzi, partecipavano, puntata dopo puntata, alla grande fiction giudiziaria e al rotolare di tante teste e dignità. Sì, meglio ricordare. Ecco Vittorio Emanuele. Le sue frasi, non proprio regali, hanno fatto il giro d'Italia. E così la storia gloriosa dei Savoia è diventata cronaca sporca, in un diluvio di intercettazioni. Per giorni e giorni le gesta del principe si sono trasformate in un penoso fumetto popolare, con un capitolo sui sardi e un altro sulle prostitute. L'opinione pubblica si è rimpinzata di dialoghi imbarazzanti, ma alla fine, nel frastuono generale, anche le accuse sono evaporate. Via i reati gravissimi, via le contestazioni e le tangenti, via l'associazione a delinquere e tante scuse per gli arresti. È il malcostume tricolore: sempre uguale da anni e anni. Arresti fra squilli di tromba, frasi a effetto atterrate al momento giusto sui giornali, capi d'imputazione chilometrici. Poi, col tempo, le nebbie della giustizia si diradano lasciando un paesaggio di rovine. Un copione che si rinnova maledettamente uguale. Roberto Salmoiraghi, sindaco forzista di Campione d'Italia, finisce nella rete stesa dall'allora pm di Potenza Henry John Woodcock intorno all'onnipresente Vittorio Emanuele. E segue la stessa umiliante trafila: le manette per, nientemeno, associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e allo sfruttamento della prostituzione. Intanto, mentre lo portano a Potenza ascolta i giornali radio che ripetono il suo nome in una litania di presunti traditori del bene pubblico. Nessuno prova a ricordare che la presunzione di innocenza «non è un velo d'ipocrisia, ma un richiamo forte alla realtà concreta». E la realtà reclama la sua innocenza. Addirittura non deve nemmeno passare in aula per il processo perché il dibattimento si affloscia ancora prima di cominciare. Salmoiraghi si dimette da sindaco, il tempo gli restituisce l'onore. Del resto, in Italia hanno gettato la spugna primi cittadini e ministri, sgambettati da insidiosi avvisi di garanzia, vocaboli velenosi usciti da qualche faldone, contestazioni imponenti svanite nel nulla. Nel silenzio assordante dei tanti garantisti di oggi. Sempre pronti per troppi anni a battere le mani ad ogni stormire della magistratura, sempre alieni da critiche, sempre rapidi nel giustificare qualunque ricamo sulle vite degli indagati. Del resto il 16 gennaio 2008 lascia la sua scrivania di Guardasigilli Clemente Mastella, assediato dalle indagini, dai sospetti, dai pregiudizi. La moglie Sandra Lonardo va ai domiciliari, lui scappa da via Arenula e una settimana dopo è il governo Prodi a saltare: il già gracile esecutivo viene travolto: il solito partito trasversale mette al primo posto la questione morale. Non c'è spazio per altre considerazioni: l'indagato è colpevole a priori, anche se poi risulterà estraneo, e il marito condanna, con la sua vicinanza, la moglie e viceversa. Non c'è scampo e i vertici dello Stato dirigono il traffico senza se e senza ma. Oggi di quel groviglio di accuse non è rimasto nulla, ma ormai è andata così.
I conti si fanno alla fine, ma le carriere vengono stroncate prima, ora il pm chiede l'assoluzione per il governatore Vincenzo De Luca, inquisito per l'indagine sul Sea Park di Salerno. Solo ieri De Luca era esposto ala gogna dell'Antimafia e passava per impresentabile. Dal Quirinale, e non solo, nemmeno l'accenno di un'obiezione.
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