Un depresso può essere assimilato a un malato «incurabile e terminale»? E - se sì - ha diritto all'eutanasia in Svizzera? Domande su cui toccherà fare chiarezza alla magistratura italiana. Ma sarà una «chiarezza» piena di ombre. Frutto di un vuoto legislativo che nel nostro Paese è particolarmente vergognoso.
Anche per questo va apprezzato il coraggio della Procura di Como che ha deciso di indagare sulla morte cercata (e trovata) in una «clinica specializzata» da un ingegnere comasco che, all'età di 62 anni, ha optato per il suicidio assistito. Il suo male oscuro si chiamava depressione: una bestia malvagia i cui graffi possono essere capiti solo da chi li ha provati sulla propria pelle. Ora il pm Valentina Mondovì vuol capire se questa patologia è compatibile o meno con il «semaforo verde» alla dolce morte concesso al professionista lombardo da parte di una delle tre associazioni mediche «no-profit» elvetiche specializzate in questo delicatissimo (e quantomai controverso) «servizio sanitario» di accompagnamento al decesso. Il pm Mondovì, se vorrà, ne scoprirà delle belle. Anche se dovrà prepararsi a scontrarsi con un muro di gomma. A partire da quel «no-profit» che, invece, è assai «profit», considerato che la richiesta di eutanasia va accompagnata da 10mila euro giustificati dalle «cliniche della morte» sotto la, assai generica, voce di «spese varie». Una «varietà» che contempla «visite mediche, colloqui psicologici, analisi delle cartelle cliniche e costi di cremazione». Soldi che devono essere versati anticipatamente e che - si badi bene - non vengono restituiti neppure se l'aspirante suicida decidesse di non suicidarsi più. I casi documentati dal Giornale nel corso di una recente inchiesta sul campo, dimostrano che il business è fiorente.
L'ingegnere di Albavilla (Como) che nei giorni scorsi ha scelto il suicidio assistito era in cura per una grave forma di depressione: condizione attestata da una lettera che aveva mandato ai servizi sociali in cui spiegava le sue intenzioni. Un caso diverso da quello di Dj Fabo reso cieco e tetraplegico dopo un incidente stradale e che fu accompagnato a morire in Svizzera dall'esponente radicale Marco Cappato, il quale sarà processato a Milano dopo l'imputazione coatta ordinata dal gip di Milano alla procura che invece aveva chiesto l'archiviazione dell'inchiesta.
Una sorte analoga probabilmente toccherà all'amico del professionista comasco che ha condotto in auto il professionista fino a Chiasso, dove poi quest'ultimo ha proseguito i treno per la Svizzera. Il reato ipotizzato è sempre lo stesso: istigazione al suicidio. Benché sia chiaro a tutti come in questi casi nessuno «istiga» alla morte di un amico o di un parente, limitandosi invece ad assecondare - presumibilmente con enorme dolore - alla volontà di chi ha deciso di farla finita.
La Procura di Como avvierà anche una rogatoria per accertare quali siano i requisiti necessari per poter accedere al
suicidio assistito. E qui si apre un altro ginepraio «normativo»: in Svizzera, su questo fronte, le «regole certe» esistono solo formalmente, ma forte è la sensazione che, per aggirarle, basti mettere mano al portafoglio.
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