«Allah hu Akbar» è diventato lo slogan dell'imminente violenza. Il grido che annuncia l'attacco, non più solo la manifestazione di un credo religioso. Ieri pomeriggio è successo ancora, e ancora non in una zona di guerra, ma nel centro di una città europea. Nantes, Francia nord occidentale, 300mila abitanti: nella piazza principale si tiene il tradizionale mercatino natalizio, le luci e tanta gente a fare gli ultimi acquisti. Un chiosco vende vin brulé, ci sono parecchie persone in fila. «Allah hu Akbar» è il grido che si sente prima che il camioncino bianco piombi proprio lì, devastando tutto e ferendo 11 persone. Quattro finiscono in ospedale in gravi condizioni. L'uomo alla guida, riferisce la polizia, subito dopo si infligge nove coltellate.
Nemmeno 24 ore prima a Digione, nord est del Paese, un 40enne alla guida di una Renault Clio ha travolto la folla, mandando all'ospedale 13 persone. Sempre al grido di «Allah hu Akbar». Vicende troppo simili e troppo vicine perché non scatti l'automatismo mentale di metterle in relazione. Cui si aggiunge la terza, quella di dieci giorni fa a Jouè-lès-Tours, nel centro del Paese, dove un uomo convertito all'Islam è entrato nel commissariato cittadino e ha aggredito tre poliziotti. E anche qui, lo stesso grido di fede usato come messaggio di violenza. Il ministro francese dell'Interno Bernard Cazeneuve ha invitato alla prudenza sul caso di Digione, il procuratore Marie-Christine Tarare ha precisato che l'automobilista autore del gesto, fermato poche ore dopo, «soffre da tempo di un disordine psichico grave». E che il suo non è stato un atto terroristico. Frase ripetuta, identica, ieri in serata sul caso di Nantes: «Non è un atto di terrorismo», spiega il procuratore Brigitte Lamy. Intanto però il premier francese Valls ammette che «mai come oggi la Francia ha conosciuto un rischio così elevato in materia di terrorismo».
Il fil rouge che lega questi tre episodi c'è: chiaro, evidente, preoccupante. Come ci fosse un virus nell'aria, che attecchisce su alcuni, quelli che il terrorismo dell'Isis chiama «lupi solitari». Approvando a distanza, esultando con entusiasmo - anche a mezzo Twitter - per ogni loro azione. Sono lupi solitari ma sono tanti, anche se sono geograficamente lontani tra loro e non incardinati nelle file istituzionali dello Stato islamico. Sono squilibrati su cui la propaganda terrorista ha capito di poter contare. Pedine fragili che si fanno complici di una causa fondamentalista. Anche seguendo da lontano anche istruzioni che proprio l'Isis fornisce loro: usare le auto come armi, in assenza di armi proprie. Come aveva suggerito a ottobre anche un portavoce di Hamas, Mushir al Masri, poco prima di un attentato a Gerusalemme. Un filo rosso che non avvolge solo l'Europa ma più in generale l'Occidente. Come nel caso di Sidney, dove un iraniano 49enne ha tenuto per 16 ore sotto sequestro i clienti di un caffè.
Man Haron Monis è poi rimasto ucciso nel blitz della polizia assieme a due sequestrati. Anche lui era lontano dalla figura «ortodossa» del terrorista, nessun coordinamento con l'apparato «ufficiale» della Jihad. Eppure si era autoproclamato «sceicco e guaritore spirituale».Twitter @giulianadevivo
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