Foodora pedala fuori dall'Italia. Fuori uno: potrebbe essere il segnale che la temuta fuga delle aziende dall'Italia gialloverde è iniziata. Uno dei colossi internazionali della consegna di pranzi e cene a domicilio annuncia il proprio addio al mercato tricolore. Ma come è successo che una delle aziende simbolo del «caso rider», messo al centro della prima azione di governo di Luigi Di Maio appena due mesi fa, abbia preso una decisione così drastica?
Per capirlo bisogna riannodare i fili di una questione che la grancassa grillina ha prima sventolato come una bandiera, poi ha ammainato a mezz'asta con incredibile rapidità. Bisogna partire da una data, il 15 giugno, e una frase solenne: «Da oggi comincia la lotta al precariato giovanile, voglio che i giovani sappiano che c'è un governo che sta lottando per loro». Con questa dichiarazione Di Maio, appena insediato al ministero del Lavoro, inaugurava la battaglia per i diritti dei rider, elevati a categoria simbolo del precariato. Qualche giorno fa, dopo aver presieduto un tavolo tra rappresentati dei lavoratori e imprese delle consegne, Di Maio ha annunciato che il tavolo sarebbe diventato «tecnico» e che terminava così «la mia prima battaglia da ministro del Lavoro», come se celebrasse una vittoria. Ripercorrendo a ritroso i due mesi che separano queste due dichiarazioni si scopre che la «prima battaglia del ministro» è stata una caporetto.
In soli due mesi si è passati dall'annuncio di una legge per tutelare i ciclo fattorini, alla presentazione di un decreto per la Dignità del lavoro, alla rivolta contro la legge da parte delle aziende che temevano conseguenze disastrose. Che ora cominciano a palesarsi. E pensare che il decreto Dignità, nelle intenzioni di Di Maio era nato proprio per tutelare i rider. Ma già dopo le prime trattative con le aziende, i vertici grillini hanno capito che era la battaglia sbagliata. Troppo di nicchia la figura del rider, troppo particolari le condizioni di lavoro (si tratta al 70 per cento di studenti cui va bene lavorare saltuariamente e senza vincoli), troppo complessa la materia per trasformarla nel primo successo da sbandierare. Così l'idea di stabilire per legge tutele minime è scivolata fuori dal decreto Dignità, che ha poi preso tutt'altra strada, concentrandosi su temi differenti, non tutti legati alla precarietà. I rider sono stati sacrificati sull'altare del marketing grillino e la soluzione al problema è stata affidata a un tavolo tra le parti che langue da settimane. Anche perché, paradossalmente, è spaccato tra chi, come Foodora, già forniva alcune forme di tutela ai fattorini e chi, come Deliveroo, l'altro colosso del settore, puntava su partite Iva e copertura solo attraverso assicurazioni private. Paradossalmente a mollare è proprio l'azienda che garantiva più tutele e aveva firmato una carta dei diritti dei rider. Ma al ministro non bastava: voleva che i fattorini a chiamata diventassero tutti lavoratori dipendenti. Non si sa quanto abbiano inciso sulla decisione le norme del decreto Dignità e il pressing di Di Maio per le assunzioni a tempo indeterminato. Foodora, annunciando l'intenzione di cedere l'attività in Italia, ha parlato di mercato troppo difficile, «troppa concorrenza» e ha annunciato che si sarebbe ritirata anche da Francia, Olanda e Australia. Ma durante la trattativa, l'azienda aveva spiegato che se fossero entrate in vigore le norme del decreto Dignità, sarebbe stata costretta a lasciare l'Italia. Nel frattempo la trattativa sul contratto è rinviata a settembre.
E Tommaso Falchi, uno dei capi dell'associazione sindacale Riders Union che nelle foto del tavolo di trattativa sedeva a fianco di Di Maio, ieri è stato licenziato dall'azienda di consegne per aver scioperato. Non male come «prima battaglia da ministro del Lavoro». In bocca al lupo per le prossime. Ai lavoratori.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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