Normale in Vaticano. Ormai lo straordinario con Bergoglio si è fatto consueto. Francesco dice del proprio pontificato: «Questo è il tempo della misericordia», e cerca di marcare ogni sua decisione con il segno della vicinanza della Chiesa ai più poveri. Per questo ha scelto come arcivescovi di Palermo e di Bologna due preti che vengono dal duro lavoro della compagnia fatta ai povericristi, a quelli che più sono stati feriti dalla vita, le prostitute, i senzatetto, gli ex detenuti. Insomma, vescovi samaritani.
A Palermo va don Corrado Lorefice, parroco di Modica, un giovanottone forte, che veste spesso in borghese, alla Luigi Ciotti, per intenderci, e non dimostra i suoi 53 anni. Viene invece inviato in Emilia, a pascere quei bolognesi «sazi e disperati» di cui parlò il cardinale Biffi, Matteo Maria Zuppi, 60 anni, ma ne dimostra di più, una figura antica, ascetica come i preti di Bernanos, emaciato come il santo curato d'Ars. Lorefice, detto il don Ciotti siciliano bazzicava da giovane prete don Puglisi, assassinato dalla mafia, che visse il proprio martirio con un sorriso carico di tenerezza per il carnefice. Subentra al cardinale Paolo Romeo, il quale aveva tutt'altro curriculum, era infatti stato al top della diplomazia vaticana, nunzio in Italia. In pratica era il prelato che selezionava i candidati all'episcopato. Zuppi, a sua volta, un po' diplomatico lo è stato e lo è: viene dalla comunità di Sant'Egidio e ha condotto con successo le trattative per la pace in Mozambico. Era stato fatto vescovo ausiliario di Roma, nel gennaio del 2012. A Bologna prende il posto del cardinale Carlo Caffarra, grande teologo, ratzingeriano assoluto, forse il cardinale più colto del collegio dei porporati, e nel contempo uomo molto vicino ai lavoratori: quando ereditò la Faac, azienda primaria nei cancelli comandati elettronicamente, il comitato di fabbrica tirò un respiro di sollievo: non avrebbe licenziato nessuno, e così è stato.
Bergoglio aveva avvertito: voglio che diventi vescovo chi ha fatto di tutto per non diventarlo. I teologi facciano il loro lavoro nelle università, insegnino nei seminari e scrivano libri. Deve fare il vescovo chi «è pastore e ha l'odore delle pecore addosso», non quello dei libri e dell'incenso.
Viene da pensare che, se ci fosse stato un Papa Bergoglio, Bergoglio non sarebbe diventato vescovo. Era provinciale dei gesuiti, non di una comunità di recupero di tossicodipendenti, e fu anche molto diplomatico nel preservare i suoi nel momento della dittatura del generale Videla. Un'avvertenza dunque: occhio all'ideologia. Quella di chi vuole slegare Francesco dal vincolo della tradizione e da un legame coi suoi predecessori, quasi che Benedetto XVI e Giovanni Paolo II si compiacessero di promuovere azzimati monsignori o alti papaveri senza misericordia, invece che preti amici del popolo. La mossa di questi teorici del «papato di rottura» era già stata anticipata con abile mossa di marketing ecclesiastico alcuni giorni fa con lo slogan: «Due preti di strada diventano vescovi». La retorica, che guaio. Si presta molto all'equivoco. In questo caso voluto: costruendo una specie di piedistallo di superiorità morale per Lorefice e Zuppi, instillando così l'idea che gli altri siano sì vescovi, ma un po' meno degni, un po' meno pastori.
Di certo il Papa un segno vuole però darlo, e chiaro. Basta con le carriere ecclesiastiche degli abatini del Settecento. Del resto, i primi apostoli erano pescatori, l'unico intellettuale del gruppo era Giovanni.
Per altro, tra tutti e dodici, Giuda è quello che si arrabbia con la Maddalena perché spreca profumo prezioso per spargerlo sui piedi di Gesù. Disse: «Si poteva vendere quest'olio per più di trecento denari, e darli ai poveri» (Marco 14, 5). Occhio all'ideologia dunque.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.